Corre
il lontano 1903 e la città galiziana di Tarnopol è in fiamme. Schulim Vogelmann
nasce sul treno diretto a Przemyslany o forse poco dopo. Dell’infanzia e
dell’adolescenza Schulim ha un ricordo un po’ sfocato: qualche bolla di
morbillo sulla pelle del fratello Mordechai e la fuga verso Vienna allo scoppio
della Prima Guerra Mondiale. È il rullo di tamburi del circo cittadino che
scandisce le giornate del giovane Schulim che senza un soldo si nasconde nei gabinetti
per non pagare il biglietto. Schulim si trasferisce a Firenze e con l’aiuto del
rabbino Margulies comincia a lavorare per il noto editore Leo Samuel Olschki.
Arriva veloce il 1944 e scappare è ormai impossibile. Caricato con la famiglia
in un vagone merci, si dirige verso una meta che pare non avere nome. Quel
viaggio è l’anticamera dell’inferno Auschwitz, che avrebbe di lì a poco
inghiottito la moglie Anna e la figlia Sissel Emilia. Schulim si salva grazie a
quel noto imprenditore di nome Oskar Schindler cui più di mille ebrei devono la
vita. La guerra finisce e Schulim torna in Italia dove ridare senso alla
propria vita è difficile ma necessario. Il figlio Daniel Vogelmann ci confessa
di aver scritto questo libro per le nipotine ma forse non solo per loro. Io
aggiungerei che lo ha scritto per noi tutti: per ricordarci che dovremmo
pensare e agire come il padre che la vita, nonostante tutto, l’ha amata.