Scrive il mistico Avraham Abulafia nel Sefer ha-chesheq che delle tradizioni (qabbalot) rivelategli da Dio, le più alte sono sotto forma di Figlia della voce (Bat qol). Secondo Abulafia è perciò la voce lo strumento principe della qabbalah, quello cioè che meglio di ogni altro consente l’incontro con la divinità nel mondo. Se Gershom Scholem ha sondato per primo in modo sistematico le meraviglie della tradizione mistica ebraica collocando al centro l’elaborazione teologica e speculativa, Moshe Idel, nel recente Catene incantate. Tecniche e rituali della mistica ebraica pubblicato da Morcelliana, sviluppa il discorso a partire dalle pratiche performative dei mistici. Analizzando decine di testi che vanno da Abulafia a Moshe Cordovero, da Ezra di Gerona a Schneur Zalman di Liadi, Idel si sofferma sulla natura non cognitiva dell’incontro mistico. Sono i rituali della tradizione rabbinica ad essere progressivamente trasformati in vere e proprie tecniche per giungere al contatto con il divino. Questo contatto può seguire le due direttrici speculari dell’ascensione e della trazione in basso e si sviluppa con la creazione di catene a partire dal nome di Dio, lo studio della Torah o la preghiera. La premessa ontologica indispensabile a queste catene è la continuità tra umano e divino che rende possibile quel contatto il cui vertice è rappresentato dall’unione mistica. L’immagine della catena deve molto a materiali neoplatonici ed ermetici, ma – è questo il cuore della lettura di Idel – pone al centro la pienezza dell’esperienza e non la descrizione dell’ontologia, dando preminenza all’attività umana grazie a un netto orientamento antropocentrico. Non da ultimo Idel si sofferma sulle forme di continuum linguistico create a partire da pratiche vocali in uno spazio sonoro condiviso in cui il mistico può incontrare la divinità. La gematriyah insegna che qol (voce) ha lo stesso valore numerico di sullam (scala): questo non indica forse che la voce è una scala che consente di salire fino a Dio?