Sono passati settantaquattro anni dalla
liberazione del campo di sterminio di Auschwitz. Eppure, nonostante il tanto
tempo trascorso, l’orrore indicibile che si spalancò davanti agli occhi dei
testimoni è tuttora presente davanti a noi, con il suo terribile impatto. Ci
interroga e ci sgomenta ancora oggi. Perché Auschwitz non è soltanto lo sbocco
inesorabile di un’ideologia folle e criminale e di un sistema di governo a essa
ispirato.
Auschwitz,
evento drammaticamente reale, rimane, oltre la storia e il suo tempo, simbolo
del male assoluto.
Quel
male che alberga nascosto, come un virus micidiale, nei bassifondi della
società, nelle pieghe occulte di ideologie, nel buio accecante degli stereotipi
e dei pregiudizi. Pronto a risvegliarsi, a colpire, a contagiare, appena se ne
ripresentino le condizioni.
Una
società senza diversi: ecco, in sintesi estrema, il mito fondante e l’obiettivo
perseguito dai nazisti. Diversi, innanzitutto, gli ebrei. Colpevoli e
condannati come popolo, come gruppo, come “razza” a parte.
Gli
ebrei. Portatori di una cultura antichissima, base della civiltà europea,
vittime da sempre di pregiudizi e di discriminazioni, agli occhi dei nazisti
diventano il problema, il nemico numero uno, l’ostacolo principale da
rimuovere, con la violenza, per realizzare una società perfetta, a misura della
loro farneticazione.
Ma
quando il benessere dei popoli o gli interessi delle maggioranze, si fanno coincidere
con la negazione del diverso – dimenticando che ciascuna persona è diversa da
ogni altra – la storia spalanca le porte alle più immani tragedie.
Gli
ebrei erano bollati con il marchio, infamante, della diversità razziale.
Dipinti con tratti grotteschi, con una tale distorsione della realtà da
sfociare nel ridicolo, se non si fosse tradotta in tragedia.
La
furia nazista si accanì con micidiale e sistematica efficienza anche contro
altre categorie di “diversi”: i dissidenti, gli oppositori, i disabili, i
malati di mente, gli omosessuali, i testimoni di Geova, i rom e i sinti, gli
slavi.
Nell’ordine
nuovo, vagheggiato da Hitler, non c’era posto per la diversità, la tolleranza,
l’accettazione, il dialogo. La macchina della propaganda, becera quanto efficace,
si era messa in moto a tutti i livelli per fabbricare minacce improbabili e
nemici inesistenti.
Dove
la propaganda non bastava, arrivavano il terrore e la violenza.
La
ragionevolezza e l’intelligenza umana furono oscurate, fino al punto di non
ritorno, dalla nebbia fitta dell’ideologia e dell’odio razziale.
Per
gettare il marchio di infamia sugli ebrei furono utilizzati tutti i mezzi di
indottrinamento allora a disposizione: giornali, radio, cinema, manifesti,
libri per bambini, trattati pseudo scientifici, vignette.
Per
sterminarli si fece ricorso agli strumenti tecnici più avanzati e alle più
aggiornate teorie d’organizzazione burocratica e industriale. L’eliminazione
del “diverso”, del sub-umano, come prodotto finale delle fabbriche della morte.
Come
ha acutamente notato Bauman, con un paradosso apparente, la modernità
tecnologica e scientifica del tempo era piegata spregiudicatamente al servizio
di una ideologia antimoderna, barbara e regressiva.
Le
persecuzioni naziste si iscrivevano in un progetto di società basato sul
predominio dei popoli cosiddetti forti e puri sui popoli deboli, su un
nazionalismo esasperato nemico della convivenza, sulla guerra come fonte di rigenerazione
e di grandezza, su un imperialismo alimentato da delirio di onnipotenza, sulla
sottomissione dell’individuo allo Stato, sulla negazione della libertà di
coscienza, sulla repressione feroce di ogni forma di dissenso.
Tutto
quel che la nostra Costituzione ha voluto consapevolmente bandire e contrastare
– segnando un discrimine tra l’umanità e la barbarie – con il riconoscimento di
eguali diritti e dignità ad ogni persona e con l’obiettivo e il metodo della
cooperazione internazionale per una convivenza pacifica tra i popoli e gli
Stati.
Ho
trovato di grande interesse il tema scelto quest’anno per il Giorno della
Memoria, scandagliando in profondità la terribile condizione femminile
all’interno dei campi di sterminio. Di quelle donne umiliate e violate, nel
fisico e nell’animo, di quelle madri, che con l’ultima forza residua, hanno
abbracciato e rincuorato fino all’ultimo istante i loro piccoli, nel buio
tremendo delle camere a gas.
Ringrazio
Francesca Fialdini – che ha condotto così bene questo incontro – , il Ministro
Bussetti, la presidente Di Segni, la professoressa Santerini, per i loro
efficaci interventi. Edith Bruck per la sua lucida, coraggiosa – e terribile –
testimonianza, di cui dobbiamo serbare memoria, nel cuore e nella mente.
Ringrazio Isabella Ragonese, Federica Fracassi, Cristina Zavalloni e il Maestro
Francesco Lotoro, perché anche l’arte, insieme alla storia, alla sociologia,
alla filosofia, alla psicologia, è un modo per avvicinarsi a
quell’inestricabile groviglio di eventi, sofferenze, paure, atrocità che fu la
Shoah.
Ringrazio
le studentesse, Federica e Giulia, per la loro testimonianza.
Rivolgo
un saluto particolare, con affetto, ai sopravvissuti che, oggi, hanno voluto
essere qui tra noi: Peppino Gagliardi, Sami Modiano, Selma Modiano, Gilberto
Salmoni e Piero Terracina.
Una
sola considerazione sul tema delle donne nella Shoah: le ideologie totalitarie
hanno sempre considerato le donne come esseri inferiori. E così come la donna
ariana, nella follia nazista, era ridotta a mero strumento per la riproduzione
di nuovi ariani, la donna ebrea portava la colpa ulteriore di aver generato la
progenie di una razza ritenuta diversa.
Anche
per questo va sempre ricordato che non può esistere democrazia e libertà
autentica nei Paesi in cui, ancora, si continua a negare pienezza dei diritti e
pari opportunità per ogni donna.
Il
Giorno della Memoria non è soltanto una ricorrenza, in cui si medita sopra una
delle più grandi tragedie della storia, ma è un invito, costante e stringente,
all’impegno e alla vigilanza.
In
Italia e nel mondo sono in aumento gli atti di antisemitismo e di razzismo,
ispirati a vecchie dottrine e a nuove e perverse ideologie. Si tratta, è vero,
di minoranze. Ma sono minoranze sempre più allo scoperto, che sfruttano con
astuzia i moderni mezzi di comunicazione, che si insinuano velenosamente negli
stadi, nelle scuole, nelle situazioni di disagio.
La
riproposizione di simboli, di linguaggi, di riferimenti pseudo culturali, di
vecchi e screditati falsi documenti, basati su ridicole teorie cospirazioniste,
sono tutti segni di un passato che non deve in alcuna forma tornare e
richiedono la nostra più ferma e decisa reazione.
Noi
Italiani, che abbiamo vissuto l’onta incancellabile delle leggi razziali
fasciste e della conseguente persecuzione degli ebrei, abbiamo un dovere
morale. Verso la storia e verso l’umanità intera. Il dovere di ricordare,
innanzitutto, Ma, soprattutto di combattere, senza remore e senza opportunismi,
ogni focolaio di odio, di antisemitismo, di razzismo, di negazionismo, ovunque
esso si annidi. E di rifiutare, come ammonisce spesso la senatrice Liliana
Segre, l’indifferenza: un male tra i peggiori.
Auschwitz,
il più grande e più letale dei campi di sterminio – con le sue grida, il suo
sangue, il suo fumo acre, i suoi pianti e la sua disperazione, la brutalità dei
carnefici – è stato spesso, e comprensibilmente, definito come l’inferno sulla
terra. Ma fu, di questo inferno, solo l’ultimo girone, il più brutale e
perverso.
Un
sistema infernale che ha potuto distruggere milioni di vite umane innocenti nel
cuore della civiltà europea, soltanto perché, accanto al nefando pilastro
dell’odio, era cresciuto quello dell’indifferenza.