Giacomo Leopardi è stato sicuramente uno dei maggiori autori che ha caratterizzato il Romanticismo Italiano: lo conosciamo per “I Canti”, le “Operette Morali”, lo “Zibaldone”, ma il poeta di Recanati è stato anche un grande studioso di lingue antiche, tra cui l’ebraico.
È stata Miriam Kay, dottoressa in Lettere Moderne ad interessarsi all’approccio di Leopardi all’ebraico e a proporlo come argomento della sua tesi di laurea, che ha poi esposto in un convegno dal titolo “Leopardi e l’Ebraico” alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi La Sapienza. Ad affiancarla il docente di Ebraico della Facoltà Alessandro Catastini e il prof. Franco D’Intino, docente di Letteratura italiana contemporanea.
Il lavoro tema del convegno è il risultato di un approfondita ricerca, che si focalizza in due punti principali: le traduzioni di Leopardi dei salmi e le riflessioni sulla lingua ebraica nello Zibaldone.
L’interesse di Leopardi per questa lingua è datato intorno al 1813; da testimonianze come una lettera a Pietro Giordani emerge che Leopardi ha iniziato a studiare l’ebraico a 15 anni.
Ci sono anche epistole di suo padre Monaldo Leopardi che cerca e ottiene per la sua famosa biblioteca la grammatica ebraica “La lingua Santa” di Gennaro Sisti, sicuramente utilizzata da giovane Giacomo.
Prime attestazioni di utilizzo dell’ebraico da parte di Leopardi si trovano nelle sue opere giovanili come l’Inno a Nettuno e il Cantico del Gallo Silvestre, in cui compare la frase in aramaico “Scir detarnegòl bara letzafra”, non è altro che la traduzione del titolo dell’operetta morale.
È però nello Zibaldone, in cui Leopardi mette a confronto l’ebraico con il latino e il greco ma anche con lingue diverse come il samaritano, che Leopardi esalta la poeticità della lingua ebraica e rimane colpito dal fatto che sia un idioma consonantico, con un sistema masoretico di vocali che definisce “spirito animator del tutto”.
Le sue traduzioni e le riflessioni nello Zibaldone sono strettamente fedeli alla lingua ebraica, seppur a scapito dell’eleganza di stile; nel testo Leopardi definisce l’ebraico come una lingua povera, con pochissime parole rispetto ad una lingua come il greco, ma quelle poche parole erano ricchissime di significati e interpretazioni.
Sono invece datate al 1816 le traduzioni dall’ebraico dei salmi 47 e 133 in diverse lingue, in prosa e poesia con un impostazione metrica priva di rima, la quale impediva la libera espressione dell’afflato poetico dell’ebraico.
Modello a cui si è ispirato il poeta per queste traduzioni è stato il lavoro dell’abate Giuseppe Venturi, che ha tradotto fedelmente dei salmi in italiano, con cui Leopardi confronta il proprio lavoro, addirittura sottolineando le imprecisioni di Venturi e le sue traduzioni talvolta libere, quando Leopardi rimane strettamente fedele al testo ebraico.