Nell’ultima parashà del libro di Bemidbàr(Numeri) l’Eterno disse a Moshè di dare ai leviti, che non avevano diritto ad avere un territorio tribale proprio, sei città nelle quali avrebbero potuto trovare rifugio coloro che avevano commesso omicidi involontari (Bemidbàr, 35:6). Infatti la pena di morte esisteva solo per l’omicidio premeditato. La pena di morte poteva essere comminata solo se l’omicida era stato avvertito da due testimoni che se avesse compiuto il crimine sarebbe stato passibile di pena di morte e avesse risposto che era al corrente della cosa e sapeva cosa stata facendo. In effetti la pena di morte era cosa rarissima. Le sei città erano le seguenti: in Transgiordania, Bètzer nel territorio della tribù di Reuven, Ramòt Gil’àd nel territorio delle tribù di Gad, e Golàn nel Bashàn nel territorio della tribù di Menascè. In Cisgiordania, Hevròn nella Giudea, Shekhèm nei monti di Efraim e Kedèsh in Galilea (Yehoshua’, 20:8).
Se invece l’omicidio aveva avuto luogo in un incidente di lavoro o di altro tipo, l’omicida per evitare rappresaglie da parte dei famigliari del morto, andava a trovare riparo in una delle città di rifugio in attesa del processo. Come risultato del processo l’accusato poteva essere riconosciuto totalmente innocente e tornare a casa perché l’incidente era avvenuto per forza maggiore (ònes); poteva essere riconosciuto colpevole per mancanza di attenzione e condannato all’esilio; oppure riconosciuto colpevole perché l’incidente era derivato da grossolana mancanza di attenzione (shoghèg karòv le-mezìd) e di non potere godere della protezione della città di rifugio.
L’omicida non intenzionale se veniva condannato all’esilio in una delle città di rifugio doveva rimanere li “fino alla morte del Kohèn Gadòl” (Bemidbàr, ibid.).
Questa condanna all’esilio non aveva quindi un periodo fisso. Il condannato poteva essere libero di tornare a casa dopo poco tempo o dopo molti anni. Questo fatto fu oggetto di critica di una “chakhàmcristiano” che nel mezzo di in una serie di argomentazioni polemiche con R. Yosef Albo (Spagna, 1380-1444) sosteneva che fosse cosa difettosa l’esistenza di una punizione diversa per l’omicida non intenzionale, per qualcuno un breve esilio e per altri un lungo esilio. (La discussione è riportata da R. Albo nel capitolo 25esimo del terzo libro delSèfer ha-‘Ikkarìm. Nelle vecchie edizioni questo capitolo era stato mutilato dalla censura. Un testo completo del capitolo fu pubblicato da R. Giuseppe Jarè [Mantova, 1840-1915, Ferrara] nel 1876 con il titolo Vikùach al Nitzchiùt Ha-Torà). R. Albo rispose: “La ragione per fare dipendere il suo ritorno dall’esilio dalla morte del Kohèn Gadòl fu così spiegata dai maestri: Questa cosa dipende dalla vita del Kohèn Gadòl affinché egli (il Kohèn Gadòl) si curi di pregare e chiedere misericordia per i suoi contemporanei in modo che non capiti loro nulla di male”.
R. Eli’ezer Ashkenazi (Italia?, 1512-1585, Cracovia) che fu rav a Cremona, nella sua opera Ma’assè Hashèm cita il quesito posto a R. Yosef Albo e scrive che secondo la sua opinione la risposta al quesito è facilmente spiegabile. Non c’è dubbio che i motivi per i quali una persona viene condannata all’esilio sono tanti che non è possibile riportarli in un libro per via del motivo o del fatto che ha causato la condanna all’esilio. […]. Nella Torà è scritto: “Quando non ci sia intenzione di uccidere e solo Iddio glielo ha fatto capitare sotto mano, ti designerò un luogo dove potrà rifugiarsi” (Shemòt, 21:13). Pertanto non vi può essere un verdetto più giusto di questo, perché Colui che conosce i segreti, sa quanti anni di esilio si merita costui e sa fino a quando vivrà il Kohèn. In questo modo non capiterà a costui di commettere un omicidio non intenzionale e di andare in esilio fino alla morte del Kohènaltro che per il numero di anni che si merita di essere esiliato. E al contrario, se la Torà avesse stabilito un periodo di tempo fisso e uguale per tutti per l’esilio ne sarebbe risultato una giustizia scorretta perché c’è chi si merita un esilio più lungo e chi si merita un esilio più breve. Un commento simile è quello di R. ‘Ovadià Sforno (Cesena, 1475-1550, Bologna) che tra l’altro scrive: “Che questo [la condanna all’esilio] avviene secondo il giudizio di Dio che […] punisce il peccatore non intenzionale sulla base del grado dell’errore”.
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