La parashà inizia con le parole: “Questi sono i “pekudè ha-mishkàn”, i conti del tabernacolo.
R. Shimshon Refael Hirsch (Amburgo, 1808-1888, Francoforte) osserva che il significato di questa parola è oscuro. Normalmente la parola pekudè significa il conto delle donazioni e dei relativi utilizzi. In questo caso questo significato è problematico perché la Torà menziona solo il totale delle donazioni di oro e di bronzo. E per quanto riguarda l’argento viene menzionato solo il totale dei mezzi-sicli raccolti nel fare il censimento (Shemòt, 38:25), ma non il totale dell’argento donato (ibid., 35:24). La quantità degli altri materiali non è menzionata; e riguardo all’oro è menzionata solo la quantità donata ma non viene fornito un rapporto su come venne usato. Inoltre in tutta la Torà la radice pkd non è mai usata nel senso di una quantità di materiale. Appare nel senso del numero di persone: pekudè ha-‘edà, sono le persone che compongono la comunità. Di conseguenza l’espressione “pekudè ha-mishkàn” denota le componenti essenziali del tabernacolo. R. Hirsch aggiunge che questo è il senso dato alla parola “pekudè” da R. Sforno.
R. ‘Ovadià Sforno (Cesena, 1475-1550, Bologna) cita il versetto di Bemidbàr (4:32-33) dove è scritto: “E dovrete affidare per nome gli oggetti che dovranno custodire e trasportare […] agli ordini di Itamàr figlio di Aharon ha-kohen”. Ognuno degli oggetti del mishkàn era sufficientemente importante per essere chiamato per nome.
R. Sforno aggiunge che gli oggetti del tabernacolo non caddero mai nelle mani dei nemici, al contrario di quanto avvenne con il Bet Ha-Mikdàsh costruito da re Salomone. Infatti gli oggetti del Mikdàsh furono portati in Babilonia dopo la conquista di Gerusalemme per mano del re Nevukhadnètzar. E nel passo del libro di Melakhìm (2 Re, 25:13-17) dove viene descritto il bottino portato via da Gerusalemme non vi è elencato nessun oggetto del tabernacolo di Moshè. Il tabernacolo meritava di non cadere nelle mani del nemico e di durare per sempre perché era la sede delle luchòt ha-’edùt, le tavole [di pietra] della testimonianza; perché era stato costruito sotto la supervisione di Moshè; perché il servizio dei leviti era sotto gli ordini di Itamàr figlio di Aharon, uomo di assoluta integrità; e perché fu costruito da Betzalèl che conosceva i segreti della creazione del mondo.
R. Sforno aggiunge che mentre il tabernacolo fu costruito da artigiani di nobile casato, il Mikdàsh di re Salomone fu costruito da artigiani importati dall’estero (1 Re, 7:13). E anche il secondo Bet Ha-Mikdàsh fu costruito per ordine del re Ciro (Ezra, 1:2) e con l’ausilio di artigiani di Tiro e Sidone. La quantità di metalli preziosi usati per la costruzione del tabernacolo fu molto piccola, paragonata alla quantità di metalli preziosi usata per la costruzione del primo Bet Ha-Mikdàsh e ancora meno di quelli usato per il rifacimento del secondo Mikdàsh ad opera del re Erode il grande. Con tutto ciò la presenza della gloria divina era più marcata nel tabernacolo che nel Bet Ha-Mikdàsh di re Salomone. Questo ci insegna che non sono le ricchezze che fecero si che il tabernacolo diventasse sede della Presenza divina, ma il timore del Creatore e le buone azioni del popolo.
R. Hirsch conclude il suo commento alla parashà e al libro di Shemòt menzionando che tutti i santuari dopo quello del deserto furono distrutti. L’ultimo che verrà costruito alla fine dei giorni durerà invece per sempre. E cita i versetti del profeta Yesha’yahu (Isaia, 2:2-4) che disse: “Avverrà, negli ultimi giorni, che il monte della casa dell’Eterno si ergerà sulla vetta dei monti, e sarà elevato al disopra dei colli; e tutte le nazioni affluiranno ad esso. Molti popoli v’accorreranno, e diranno: «Venite, saliamo al monte dell’Eterno, alla casa dell’Iddio di Giacobbe; egli ci ammaestrerà intorno alle sue vie, e noi cammineremo per i suoi sentieri». Poiché da Sion uscirà la legge, e da Gerusalemme la parola dell’Eterno. Egli giudicherà tra nazione e nazione e sarà l’arbitro fra molti popoli; ed essi delle loro spade fabbricheranno vomeri d’aratro, e delle loro lance, roncole; una nazione non leverà più la spada contro un’altra, e non impareranno più la guerra”.