R. Avigdor Burstein (1947-) rav del bet ha-kenèsset dell’Hekhàl Shelomò a Gerusalemme, tra le sue derashòt sulle parashòt settimanali ne ha anche una sulla parashà di Nitzavìm che chiama “La parashà della Teshuvà”. Perché proprio Nitzavìm è chiamata la parashà della teshuvà? R. Burstein indica i versetti nei quali è scritto: “Questa mitzvà che ti comando oggi non è nascosta né lontana da te. Non è in cielo, perché tu dica: «Chi salirà per noi in cielo, per prenderla e farcela udire, affinché possiamo eseguirla?». Non è di là dal mare, perché tu dica: «Chi attraverserà per noi il mare, per prenderla e farcela udire, affinché possiamo eseguirla?». Anzi, questa cosa è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica (Devarìm, 30: 11-14).
Il Targùm Yerushalmì, è una traduzione della Torà in lingua aramaica che comprende anche materiale preso dai midrashìm. Riguardo alle parole “Non è in cielo” e “Al di là del mare” è scritto che se avessimo un profeta come Moshè che era salito in cielo a prendere la Torà o anche un profeta come Yonà (Giona) che era andato al di là del mare, potremmo fare teshuvà. Moshè aveva dato l’anima per il popolo d’Israele al punto di dire all’Eterno di cancellare il suo nome dalla Torà se non avesse perdonato il popolo dopo il peccato del vitello d’oro (Shemòt: 32:32). Quanto al profeta Yonà nei Pirkè de-Rabbi Eli’ezer (cap. 10) è scritto che era fuggito da Eretz Israel su una nave diretta a Tarshish (vicino a Cadice sull’Oceano Atlantico) per non dover più profetizzare perché la profezia è possibile solo in Eretz Israel. E perché Yonà non voleva profetizzare? Yonà riteneva che gli abitanti della città di Ninive, alla quale era stato mandato ad annunciare che la città sarebbe stata distrutta per via dei loro peccati, apparivano disposti a fare teshuvà. E se avessero fattoteshuvà l’Eterno avrebbe punito il popolo d’Israele che avrebbe fatto una pessima figura non facendo teshuvà come gli abitanti di Ninive. Anche Yonà come Moshè era disposto a sacrificarsi per salvare il popolo d’Israele. A queste affermazioni, la Torà risponde che non è necessario avere profeti come Moshè e Yonà che ci aiutino a fareteshuvà “Perché questa cosa è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica”.
R. ‘Ovadià Sforno (Cesena, 1475-1550, Bologna) nel suo commento scrive: “Nella tua bocca e nel tuo cuore: per riconoscere in cuor tuo i peccati che hai commesso nei confronti di Dio Benedetto, pentirti e confessarli con la tua bocca”.
Ma se lateshuvà è così vicina perché non fanno tutti teshuvà? R. Chayim Leib Shmuelevitz (Kaunas, 1902-1979, Gerusalemme) che fu a capo della Yeshivàt Mir a Gerusalemme, in una delle sue derashòt intitolata “Il sonno profondo dell’abitudine” (Sichòt Mussàr, 1971, Nitzavìm, maamàr 32) scrive così: “La disgrazia umana è che ci si abitua alla propria situazione. E si continua così senza rendersi conto della incipiente tempesta. Questo è il risultato dell’abitudine. Perché se ci si rendesse conto della situazione si cambierebbe tutto. E che una persona possa cambiare vita da un momento all’altro è dimostrato dalla halakhà citata dai maestri nel trattatoKiddushìn (49b): “Chi dà l’anello a una donna e le dice che lo fa per farla sua sposa, e dice che lo fa «a condizione che io sia un giusto», anche se è totalmente malvagio, l’atto matrimoniale è valido”. Egli cita R. Meir Katzenellenbogen (Germania, 1882-1565, Padova) detto Maharam di Padova, che scrive (responso n. 37) che poiché l’uomo afferma “a condizione che io sia un giusto” e vuole sposare la donna, si deve presumere che è possibile che in quel momento abbia fattoteshuvà e sia veramente intenzionato a mantenere la promessa.