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    Commento alla Torà. Parashà di Ki Tissà: come si fa a “fare” lo Shabbàt?

    In questa parashà è scritto: “I figli d’Israele osserveranno lo Shabbàt, per fare lo Shabbàt nelle loro generazioni come patto perenne. È  un segno perenne fra me e i figli d’Israele che l’Eterno in sei giorni ha fatto il cielo e la terra, e nel settimo giorno ha cessato e la Sua volontà si è realizzata” (Shemòt, 31:16-17. Il termine vaynafàsh è stato tradotto come indicato dal Maimonide nella Guida degli Smarriti, I: 67, alla fine del capitolo).

    Questi due versetti vengono recitati tre volte ogni Shabbàt: la prima volta il venerdì sera prima della ‘amidà; la seconda volta durante la ‘amidà della mattina (shachrìt) di Shabbàt; e la terza volta durante il kiddùsh prima del pranzo del sabato.

    Per quale motivo lo Shabbàt è un segno che l’Eterno ha creato il mondo? R. Sa’adya Gaon (Egitto, 882-942, Bagdad) citato da R. Shurin in Kèshet Aharòn, afferma che la differenza tra il popolo d’Israele e le nazioni del mondo la si vede solo tramite lo Shabbàt  perché di Shabbàt  gli israeliti chiudono i negozi e non viaggiano. Lo stesso R. Aharon Benzion  Shurin (Lituania,1913-2012, Brooklyn) aggiunge che nella Havdalà che si fa all’uscita dello Shabbàt si dice: “Che [l’Eterno] separa Israele dalle nazioni. Si riconosce chi è israelita grazie allo Shabbàt”.

    R. Avraham ibn ‘Ezra (Tutela, 1089-1167, Calahorra) nel suo commento alla Torà osserva che la parola “segno” è usata sia per la milà (circoncisione) sia per lo Shabbàt. E cita R. Sa’adya Gaon che afferma che come la milà è un segno che permette di riconoscere chi è israelita, così pure si riconosce un israelita dal fatto che si astiene dall’operare o da trattare affari di Shabbàt.

    R. Chayim ibn ‘Attar (Marocco, 1646-1743, Gerusalemme) nel suo commento Or Ha-Chayìm alla Torà, si pone la domanda di come si possa usare il verbo “fare” riguardo all’osservanza dello Shabbàt se l’essenza dello Shabbàt è di astenersi dall’operare. Una sua prima risposta è che di Shabbàt si aggiunge sempre qualche minuto prima dell’entrata dello Shabbàt che inizia con il tramonto del sole e qualche minuto dopo l’uscita dello Shabbàt che termina con lo spuntare delle stelle. In questo modo si fa in modo che il tempo aggiunto diventi parte dello Shabbàt.

    Una sua altra spiegazione è basata sull’insegnamento dei Maestri nel Talmud babilonese (Kiddushìn, 39b) che affermano: “Chi si astiene dal commettere una trasgressione [quando si trova nella condizione di poter trasgredire] riceve una ricompensa come se avesse eseguito una mitzvà”. Da qui si impara che colui che sta attento a non commettere una trasgressione è come se avesse compiuto un’azione. E di Shabbàt chi si guarda dal fare una delle trentanove melakhòt proibite, come cucinare, lavorare la terra o occuparsi di affari, che sono occupazioni quotidiane, viene considerato alla stregua di colui che abbia compiuto una mitzvà e quindi “fatto” lo Shabbàt.  

    Per quanto l’affermazione che l’osservanza dello Shabbàt consista essenzialmente nell’astenersi dalle melakhòt, si può aggiungere che ci sono molte cose “da fare” per osservare lo Shabbàt in modo appropriato. R. Moshè Chayìm Luzzatto (Padova, 1707-1746, Acco) nella sua opera Mesillàt Yesharìm scrive che vi è una mitzvà specifica di onorare lo Shabbàt, come disse il profeta Yesha’yà (Isaia, 58:13): “E lo onorerai”.  R. Luzzatto scrive: “La regola è che dobbiamo fare ogni azione dalla quale si vede che si dà importanza allo Shabbàt. E gli antichi maestri per fare ciò si occupavano di persona dei preparativi per lo Shabbàt, ognuno secondo quello che doveva fare”. Anche così “si fa” lo Shabbàt.

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