La parashà di Acharè Mot descrive il servizio del Kohèn Gadòl nel giorno di Kippur nel Mikdàsh.
Il
Maimonide (Cordova, 1138-1204,
Il Cairo) nelle Hilkhòt Teshuvà (lett.:
“regole del ritorno” sulla retta strada) scrive che quando il Bet Ha-Mikdàsh era in esistenza, il
capro espiatorio serviva da espiazione per tutti i peccatori d’Israele che
avevano fatto teshuvà (cap. 1:2)
Nel Talmud babilonese
(trattato Yomà, 85b) riguardo al
versetto dove è scritto “Sarete ripuliti da tutti i vostri i peccati al
cospetto dell’Eterno” (Vaykrà,
16:30), R. El’azar figlio di ‘Azarià spiegò che il giorno di Kippur serve ad
espiare solo i peccati commessi nei confronti dell’Onnipresente. I peccati
commessi nei confronti del prossimo non vengono espiati se non ci si è
rappacificati con la persona offesa. Il Maimonide inserisce questa regola nelle
Hilkhòt Teshuvà. Egli scrive: “La teshuvà e il giorno di Kippur non
espiano altro che i peccati tra l’uomo e l’Onnipresente, come per esempio,
quando si ha consumato cibi proibiti o sono stati commessi peccati sessuali, e
così via. Tuttavia i peccati commessi nei confronti del prossimo, come per
esempio, i danni fisici causati al prossimo, le maledizioni, i furti e così
via, non vengono perdonati fino a quando il colpevole non abbia restituito al
prossimo quello che gli è dovuto e si sia rappacificato con lui. E anche dopo
aver restituito al prossimo il dovuto, il colpevole deve rappacificarsi con il
prossimo e chiedergli scusa. Anche solo per un insulto verbale bisogna
rappacificarsi con il prossimo e chiedergli il perdono […] (ibid., 2:9).
R. Israel Meir Kagan (Belarus, 1839-1933) nella sua opera Chafètz Chayìm scrive: “Se qualcuno ha
commesso la trasgressione di raccontare lashòn
harà (maldicenza) sul prossimo e
vuole fare teshuvà,
la teshuvà da fare dipende dalla
situazione. Se coloro che hanno sentito le sue parole non l’hanno creduto e la
persona di cui ha sparlato non è stata quindi denigrata, è stato commesso
solamente un peccato nei confronti dell’Onnipresente […]. Se invece le sue
parole hanno avuto un effetto nei confronti di coloro che le hanno sentite, la
persona di cui ha sparlato è stata denigrata, e sono stati così causati danni fisici
o psicologici alla persona, o danni alle sue sua proprietà, è stata commessa
una trasgressione anche nei confronti del prossimo, e né il giorno di Kippur né la morte sono sufficienti ad
espiare le trasgressioni nei confronti del prossimo senza rappacificarsi con la
parte lesa. Pertanto bisogna chiedere perdono alla persona offesa e dopo che
quest’ultimo si sarà rappacificato con lui e l’avrà perdonato, non rimarrà
altro che il peccato nei confronti dell’Onnipresente […]. Anche se colui di
cui si è sparlato non sa nulla, bisogna rivelargli il torto che gli si è stato
fatto e chiedergli perdono […]” (Edizione Morasha, 2015, p. 88).
Quando R. Israel Salanter (Lituania,
1809-1883, Koenisberg), fondatore della scuola denominata Mussar, venne a sapere che R. Kagan aveva pubblicato l’opera Chafètz Chayìm chiese al genero che
abitava a Vilna di procuragliene una copia. Quando lesse l’opera espresse il
suo disaccordo sull’affermazione che “Anche se colui di cui si è sparlato non
sa nulla, bisogna rivelargli il torto che gli si è stato fatto e chiedergli
perdono”. R. Salanter fece notare che la maldicenza è un peccato commesso nei
confronti del prossimo, e l’essenza della proibizione di commettere peccati nei
confronti del prossimo è di non farlo soffrire. Ora se qualcuno ha sparlato del
prossimo e vuole fare teshuvà, se va
dal prossimo a confessare quello che detto su di lui per farsi perdonare mentre
il prossimo non ne sapeva nulla, lo fa soffrire di più. R. Salanter affermò che
una persona non ha diritto di fare teshuvà
alle spese del prossimo. In questo caso è meglio rimanere senza teshuvà.
Un peccato imperdonabile
peggiore della maldicenza è la calunnia. Mentre la maldicenza consiste nel
raccontare cose negative sul prossimo anche se vere, la calunnia consiste nel
raccontare il falso del prossimo. R.
Sa’adia Gaon (Egitto, 882-942, Babilonia) nella sua opera Emunòt ve-De’òt (ed. R. Kapah, p. 185)
scrive: “per tutti i peccati esiste la teshuvà
eccetto tre: chi ha fatto traviare il pubblico diffondendo opinioni o
insegnamenti errati […]; chi ha calunniato una persona incensurata […] e
chi ha derubato il prossimo e non gli restituito quanto dovuto […]”.