
Un’offensiva annunciata
Come tutti i giornali hanno riportato, l’esercito israeliano è entrato l’altra mattina a Gaza City, il capoluogo della Striscia di Gaza. Non c’è nessuna sorpresa in questa azione, che era stata apertamente discussa fra governo e Stato Maggiore delle Forze Armate, con notevoli dissensi iniziali fra loro successivamente superati, poi annunciata tanto dal Primo Ministro Netanyahu e dal Capo di Stato Maggiore, contestata da parte (ma solo parte) dell’opposizione e da agguerrite manifestazioni di piazza. Soprattutto era stata preparata da una decina di giorni di colpi dell’aviazione su edifici che erano stati identificati come possibili roccaforti di Hamas, luoghi di avvistamento e di sparo sulle truppe, centri di coordinamento dell’azione terrorista. Oltre sessanta di queste “torri” erano state abbattute, nell’ultima settimana. La trasformazione di Gaza City da zona “santuario” di Hamas in terreno di guerra era stata anche largamente comunicata dall’esercito israeliano ai suoi abitanti, in maniera tale da sottrarli al fuoco dirigendoli in zone attrezzate per aiutarli e nutrirli, mentre Hamas aveva cercato in tutti i modi, dalla retorica religiosa alla violenza fisica, di trattenerli in città e usarli come sudi umani. Alla fine il via è venuto la mattina del 15 settembre dall’incontro fra Netanyahu e il Segretario di Stato (cioè il ministro degli esteri) americano Marco Rubio, che in una conferenza stampa ha dichiarato che la convinzione del Presidente Trump e sua è che “Hamas deve essere eliminato e gli ostaggi liberati”. Questo annunciato da Rubio è lo scopo dell’operazione: distruggere Hamas e finire la guerra.
La propaganda contro Israele
In realtà è difficile distinguere Gaza City (o il suo centro, perché la periferia era già stata investita in precedenza dalle azioni israeliane) dal resto della Striscia: non vi sono ostacoli naturali, l’edilizia disordinata caratteristica di tante città mediorientali ne rende confusi i confini. Essa non era stata toccata finora soprattutto per il sovraffollamento e la presenza di ridotti e fortificazioni terroriste sottoterra e negli edifici, che insieme al sovraffollamento degli abitanti e alla probabile presenza dei luoghi di detenzione dei rapiti rendevano (e rendono ancora) difficile e pericolosa l’azione militare sul terreno. Hamas era ben consapevole di questa difficoltà e ci ha montato intorno una campagna di propaganda, appoggiata da media e forze politiche “progressiste”, talvolta da governi soprattutto in Europa e nel mondo anglosassone. Difficile pensare che alla base di questo schermo propagandistico stia davvero la preoccupazione per i rapiti e neanche quella per la gente comune di Gaza, tant’è vero che non vi sono proteste per il violento tentativo di Hamas di costringerli a fare ancora una volta gli scudi umani. Nella migliore delle ipotesi c’è preoccupazione per una vittoria “troppo netta” e dunque “destabilizzante” di Israele, come già era accaduto in tutte le guerre del passato ad opera degli Usa; nella peggiore, come nel caso della “flottiglia”, ma anche del governo spagnolo e del suo capo, il socialista Sanchez, c’è una chiara vicinanza politica con Hamas; in altri casi ancora un cinico calcolo di bacino elettorale o, nel caso dei media, di vendite.
Come Rafah
Qualcosa di molto simile era accaduto in precedenza a Rafah, altra importante città della striscia di Gaza, che controlla l’accesso dall’Egitto. Israele aveva raggiunto questa frontiera da tempo ma la presa della città era stata bloccata da delibere dell’Onu, prese di posizione dei paesi europei, manifestazioni di piazza, ma soprattutto dal veto dell’amministrazione Biden. Tutti prevedevano che la conquista di Rafah avrebbe portato a disastri umanitari che non si sono verificati, a crisi internazionali che non si sono viste. Di fatto la conseguenza principale dell’ingresso israeliano in città è stata l’eliminazione di Yahya Sinwar, il capo militare di Hamas e il responsabile del 7 ottobre. Sia per Rafah, sia adesso per Gaza City c’è stata anche una certa resistenza interna, da parte dei vertici militari e di sicurezza. E’ stata la determinazione del governo, e personalmente di Bibi Netanyahu a superare queste esitazioni.
Una battaglia difficile
Lo scopo dell’operazione è chiaro: spezzare le ultime resistenze organizzate di Hamas, obbligarli ad arrendersi e a liberare i rapiti, ed eliminare completamente coloro che rifiutano. Già la settimana scorsa l’esercito ha riportato i nomi di alcuni capi di Hamas che avevano chiesto un salvacondotto per fuggire all’estero, A uno di loro, che probabilmente aveva fatto recuperare i resti di due salme del 7 ottobre trattenute dai terroristi, l’emigrazione è stata concessa, agli altri è stata negata. La conquista di Gaza City non è facile, richiede a fanti e carristi di entrare in un labirinto urbano certamente pieno di trappole esplosive e di terroristi disposti a qualunque azzardo per ucciderli o – ancor peggio – rapirli. Per dare un segnale forte, per la prima volta nella storia di Israele, il Capo di Stato maggiore si è impegnato a dirigere l’operazione venendo in prima linea. Non bisogna pensare però che questa battaglia decisiva duri ore o giorni. Ci vorranno settimane, forse mesi, per eliminare la resistenza di Hamas, che non ha la forma di uno schieramento frontale, ma di mille agguati e trappole.
Gli altri fronti
Intorno a questo scontro a Gaza, la guerra continua su altri fronti. Ci sono gli Houti, che l’aviazione ha colpito ieri di nuovo, ma che continuano a sparare missili sulla popolazione civile, ci sono le situazioni di Libano e Siria, dove Israele sta intervenendo per impedire che Hezbollah si riarmi, che il regime siriano possa accumulare armi provenienti dalla Turchia e anche che possa sterminare i Drusi. E c’è l’Iran, con cui la partita quasi sicuramente non è finita: “ci saranno altri round” come ha detto il ministro della difesa Katz. Il più attivo di tutti però è l’“ottavo fronte” della politica internazionale, che ormai mira apertamente a isolare Israele, a impedirgli di difendersi negandogli armi e rifornimenti. Ciò potrebbe portare lo Stato ebraico a doversi trasformare in una “nuova Sparta” come ha detto con espressione molto discussa Netanyahu, che però ha aggiunto subito che il progetto di isolamento politico e militare di Israele non sta prevalendo, soprattutto grazie agli Stati Uniti. La visita di Rubio ne è una prova e un’altra è l’invito a visitare Trump fra due settimane che Netanyahu ha accettato: sarebbe il quarto incontro in un anno, un record assoluto.