L’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre 2023 ha stravolto la vita di Israele e degli ebrei del mondo. Quel giorno, la cosiddetta “Operazione Tempesta di Al-Aqsa” dei terroristi di Hamas è iniziata alle prime ore dell’alba: alle migliaia di missili lanciati dalla Striscia, si sono aggiunte le incursioni di migliaia di terroristi per via aerea, terrestre e marittima. Tra i primi ad accorgersene, vi sono stati i 3mila ragazzi del Nova Festival, il rave party nel deserto nel Negev. I miliziani giunti dal cielo a bordo di deltaplani hanno aperto dei varchi per gli uomini a terra, pronti a entrare nel territorio israeliano. Espugnate le postazioni militari, hanno eliminato ogni barriera e hanno raggiunto villaggi, città, kibbutzim, per uccidere, distruggere, saccheggiare, rapire, colpendo chiunque, dai giovani al festival ai civili nelle proprie case, passando per i militari nei vari presidi. Gli ostaggi sono stati catturati indiscriminatamente tra uomini, donne, giovani, anziani, senza eccezioni neppure per bambini di pochi mesi o malati. Il bilancio finale è stato di oltre 1200 morti, più di 250 rapiti, centinaia di migliaia di sfollati, una società traumatizzata e divisa.
A distanza di poche ore, il consiglio di sicurezza guidato dal premier Benjamin Netanyahu ha dichiarato lo stato di guerra. L’11 ottobre si è costituito un governo di unità nazionale con la partecipazione dell’ex ministro della Difesa Benny Gantz, che ne ha fatto parte fino a giugno. Le operazioni sono partite nei giorni successivi con bombardamenti su infrastrutture chiave e obiettivi militari nella Striscia di Gaza. Il 28 ottobre è iniziato l’intervento di terra con l’obiettivo di smantellare Hamas e di riportare a casa gli ostaggi. Due americani e due donne anziane sono stati liberati a due settimane dal rapimento.
Nello stesso tempo, sono partite le iniziative diplomatiche: dopo un’iniziale (ma non uniforme) solidarietà a Israele, nelle settimane successive numerosi Paesi hanno preso le distanze e criticato le azioni dell’IDF. Le vittime a Gaza sono state migliaia, ma spesso causate da Hamas stesso, che, come da prassi, ha usato scuole e ospedali come quartier generale dei terroristi, sfruttando i civili come scudi umani. Gli ostaggi sono stati spesso tenuti prigionieri nelle case dei civili stessi, mentre i terroristi si sono rifugiati nei tunnel, strategici per nascondersi e per far arrivare armi.
Il 28 novembre, dopo complessi negoziati, è entrato in vigore il primo cessate il fuoco temporaneo tra Israele e Hamas: 50 ostaggi sono stati riconsegnati in cambio di 150 detenuti palestinesi, con la sospensione delle ostilità per alcuni giorni. Nei mesi successivi, i negoziati per una nuova tregua e per la liberazione di altri ostaggi sono stati continui, con diversi mediatori, in primis gli Stati Uniti, ma anche Qatar, Egitto, altri Paesi arabi sunniti, ma senza risultati, spesso per le condizioni irricevibili poste dai terroristi palestinesi. Per alcuni rapiti, nel corso dei mesi, è stato ufficializzato il decesso; alcuni sono stati salvati dall’IDF, come Noa Argamani, Almog Meir Jan, Andrey Kozlov e Shlomi Ziv, liberati l’8 giugno con la cosiddetta “operazione Arnon”, dal nome dell’ispettore capo Arnon Zamora rimasto ucciso nell’eroica operazione.
Il conflitto si è rivelato cruento ed esteso. Il sud di Israele, infatti, è stato costantemente sotto la minaccia dei missili di Hamas, mentre i terroristi di Hezbollah dal Libano colpivano il nord. L’apertura di un secondo fronte è stata una minaccia continua, smentita a inizio novembre da Hassan Nasrallah, sebbene la pressione su Israele non sia mai cessata. A fine luglio, un missile ha colpito un campo sportivo di Majdal Shams, uccidendo dodici bambini israeliani della comunità drusa. La risposta israeliana è arrivata con l’omicidio mirato del comandante di Hezbollah Fuad Shukr a Beirut. A distanza di un mese, la vendetta libanese con il lancio di migliaia tra missili e droni, preceduti però dal massiccio bombardamento preventivo israeliano.
I ribelli yemeniti Houthi, nel frattempo, hanno attaccato le navi occidentali in transito nel Mar Rosso e lanciato missili verso Eilat. Queste diverse pressioni sono state orchestrate dall’Iran, che è andato anche oltre il supporto ai gruppi terroristici: nella notte tra il 13 e il 14 aprile, in risposta all’uccisione di due Guardie della Rivoluzione nell’ambasciata iraniana a Damasco attribuita da Teheran a Israele, con centinaia tra droni e missili ha bombardato lo Stato ebraico, che ha limitato i danni grazie all’Iron Dome e ad altri sistemi di protezione. Come risposta, il 19 aprile, Israele ha lanciato dei droni contro una base militare iraniana a Isfahan. Lo scontro tra Israele e Iran è ripreso a fine luglio, con l’uccisione del leader politico di Hamas Ismail Haniyeh a Teheran. Colpito sul proprio territorio, l’ayatollah Ali Khamenei ha minacciato una rappresaglia, poi revocata in nome dei negoziati per una tregua. L’atteggiamento della Repubblica islamica ha celato probabilmente l’interesse a evitare un’escalation su scala regionale, che avrebbe riflessi globali e sarebbe difficilmente sostenibile per Teheran.
Ma le ultime settimane hanno aperto nuovi scenari. La necessità di riportare a casa le centinaia di migliaia di sfollati del nord, sempre sotto i missili provenienti dal Libano, ha spunto il governo israeliano a dare il via alle operazioni contro Hezbollah: il 17 e il 18 settembre, migliaia di cercapersone e altri dispositivi di comunicazione, utilizzati dal gruppo terrorista per evitare di essere tracciati, sono esplosi simultaneamente in Libano e Siria. I giorni successivi sono state colpite alcune aree strategiche di Beirut e di altre città principali: il 20 settembre è stato ucciso Ibrahim Aqil, comandante militare di Hezbollah, già ricercato dagli Stati Uniti per un attacco mortale all’ambasciata americana a Beirut nel 1983 e ritenuto dall’IDF impegnato nella pianificazione di un attacco nel Nord di Israele simile a quello del 7 ottobre. Dopo aver sollecitato la popolazione civile ad evacuare l’area, Israele ha lanciato ulteriori attacchi aerei finalizzati a decapitare Hezbollah: il risultato più significativo è giunto il 27 settembre, quando, dopo un bombardamento nei pressi del quartier generale del gruppo terroristico, l’IDF ha annunciato che il leader Hassan Nasrallah era stato ucciso. A distanza di poche ore, sono partite le operazioni militari sul terreno finalizzate a smantellare le posizioni di Hezbollah nel Sud del Libano e a mettere fuori uso la fitta rete di tunnel e le postazioni militari da cui partono i missili.
L’apertura di questo nuovo fronte ha spinto l’Iran a intervenire per tutelare la propria emanazione in Libano: a fine settembre, Teheran ha così lanciato 180 missili balistici in due ondate ravvicinate, puntandoli soprattutto su Tel Aviv; una rappresaglia per l’uccisione di Haniyeh e Nasrallah, hanno fatto sapere i Guardiani della Rivoluzione. Nelle ore successive, corrispondenti alle celebrazioni di Rosh Hashanà, Israele ha iniziato a valutare il tipo di risposta; da Teheran, intanto, l’ayatollah Ali Khamenei, alla cerimonia di commemorazione di Nasrallah, fucile in mano, ha minacciato nuovamente lo Stato ebraico, rivendicando la legittimità dell’attacco del 7 ottobre e ribadendo il proprio sostegno ad Hamas ed Hezbollah.
A un anno da quel terribile eccidio, il quadro resta complesso, con Israele impegnato su più fronti, un conflitto sul campo ancora intenso e con ogni scenario possibile.
Un anno di guerra
Tanti fronti aperti e ogni scenario possibile