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    Tripoli – Tel Aviv, andata e ritorno

    La mostra che sto visitando in un modernissimo museo è molto interessante. Cammino in silenzio in una sala dalle pareti a vetrata che si oscurano con il crescere dell’intensità del chiarore esterno. Il pavimento è di marmo bianco e le pannellature sono dello stesso colore per fondersi con l’architettura dove sono affisse vecchie fotografie di Tel Aviv, le prime immagini della città, polverosa e assolata, che sono illuminate soffusamente.

     

    Molte sono in bianco e nero e riproducono palazzine basse in uno stile che poco ha a che fare con una città mediorientale, mentre sarebbero più consone nel Nord Europa.

    Anche a Roma, in alcuni quartieri borghesi costruiti negli anni ’30, ho notato edifici dall’architettura simile. Fra le due, però, c’è una sottile differenza stilistica, in Italia in quegli anni imperversava il razionalismo, influenzato dal regime e dal desiderio di auto celebrazione del fascismo. Gli architetti ebrei tedeschi invece che ebbero il sogno di costruire una nazione, arrivarono nella Palestina mandataria britannica portandosi appresso lo stile puro del Bauhaus.

     

    Un manipolo di donne e uomini pose la prima pietra a poca distanza dal Mar Mediterraneo e la chiamarono Tel Aviv. È la traduzione in ebraico di Collina Primavera, semplicemente vollero celebrare il momento topico, coniugando la duna di sabbia del sito dove si trovavano in quel momento e la stagione che stavano vivendo.

     

    Era l’11 aprile 1909. La vollero realizzare seguendo un nuovo modello urbanistico molto in voga in quegli anni, la città giardino, caratterizzata da grandi viali alberati, ampie piazze, case basse e luminose.

     

    Proseguendo la visita, ammiro con tenerezza l’immagine dell’antica stazione ferroviaria, costruita in un immenso spazio vuoto dove sullo sfondo, in lontananza, vicina al mare, si vede arroccata su un promontorio la cittadella medioevale fortificata di Giaffa. I britannici e gli arabi increduli derisero gli ebrei quando li videro dividere in lotti un pezzo di deserto con paletti e funi. A poco, a poco, però, nacquero ampie piazze rettangolari e circolari con palazzi a tre piani dalle linee pure ed avveniristiche. Nelle fotografie gli alberi piantati sono così esili da essere tenuti su con un’asticella. Per rendere la città più piacevole e farla assomigliare a quelle mitteleuropee, costruirono sale da concerto, cinema e musei.

     

    Le immagini di quella terra assolata mi hanno subito portato alla mente la mia città natale che aveva avuto un destino simile. Gli italiani sbarcarono su una spiaggia della Libia il 29 settembre del 1911, a poca distanza dalle mura fortificate ottomane di Tripoli, arroccata su un promontorio. Un anno dopo iniziarono a costruire la nuova città. Mentre l’embrione dello stato ebraico era composto da una moltitudine di persone che fuggivano da paesi ostili per tornare nella terra degli avi in cerca di autodeterminazione, gli italiani conquistarono la Libia per colonizzarla e con un governo disposto a spendere enormi risorse finanziarie per la sua riuscita.

     

    Anche a Tripoli divisero in lotti il deserto a ridosso del Mediterraneo e sorsero palazzi dall’architettura umbertina che assomigliava a quella di Torino o di Roma.

    Solo durante il Ventennio si cambiò stile. Ciò avvenne quando il duce decise che era importante per il prestigio del fascismo dare un’immagine di grandezza alla seconda capitale dell’impero. Gli italiani non badarono a spese, fecero nascere palazzi con portici in marmo, la cattedrale con il campanile che dominava il centro della città nuova, sontuosi alberghi, stabilimenti balneari, la fiera, giardini botanici sul lungomare. Dappertutto posero bassorilievi e mosaici a esaltare con simboli eroici l’ideologia del regime.

     

    Nel frattempo, gli ebrei della Palestina britannica dissodavano terreni aridi, scavavano pozzi e costruivano aziende agricole comuni dove si condividevano le fatiche e i frutti della terra. Per fare questo, chiesero finanziamenti a privati in tutto il mondo, cercando di convince banchieri e commercianti a investire nella terra dei padri. 

     

    In Libia invece il regime fece arrivare la gente dalle zone povere d’Italia, gli concesse la terra e casolari donando trattori, sementi e armenti. I contadini trovarono i campi brulli da dissodare, ma era meglio del niente che fino ad allora avevano avuto. Con tanta voglia di lavorare, piano piano, riuscirono a migliorare la propria esistenza e cambiare il paesaggio.

     

    Alla fine della Seconda guerra mondiale, le due città ebbero un diverso destino. Dopo la dichiarazione d’indipendenza del 1948, Tel Aviv fu la prima capitale del nuovo Stato d’Israele, ma un anno dopo lo divenne Gerusalemme. Tripoli invece fu sottratta al governo degli italiani e ceduta agli inglesi. Nel 1952 nacque prima una monarchia indipendente e qualche anno dopo una dittatura. Da subito, il potere prese una brutta china fino a quando cacciò definitivamente tutti coloro che i libici consideravano stranieri anche se vivevano nel paese da molte generazioni. Prima fu la volta degli ebrei, nel 1967, e poi toccò agli italiani nel 1970.

     

    Mi accorgo che la gente mi guarda incuriosita, sono rimasto assorto nei miei pensieri con lo sguardo su una vecchia fotografia. Esco dal museo e vengo travolto dai suoni della città, alzo gli occhi sui grattacieli di acciaio e cristallo, vedo il traffico frenetico di auto, bus e treni moderni, insegne luminose e gente che passeggia serena. Fermo un taxi e gli dico di portarmi in albergo, guardo fuori dal finestrino e penso a quanto sia importante la cultura e la gioia di vita per creare bellezza. Tripoli e Tel Aviv, i due luoghi che amo, avrebbero potuto avere lo stesso splendido destino.

     

    Passeggiare sul lungomare sotto le palme fruscianti, ammirare la bellezza delle case colorate dal tramonto, frequentare ristoranti e alberghi accoglienti, ascoltare la musica, vivere la storia e l’arte. Guardo con ammirazione Tel Aviv, è con me e cammina verso il futuro, mentre la mia Tripoli, ormai distrutta dall’incuria degli uomini e dalla guerra, può vivere solo nei miei ricordi, come in una fotografia sbiadita in bianco e nero.

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