La pausa dei lavori parlamentari
La sospensione dell’iter legislativo delle prime leggi della riforma della giustizia in Israele, su cui ha riferito su Shalom Luca Spizzichino, non è un annullamento o una rinuncia. La Knesset, il parlamento israeliano, lavora come quello americano e parzialmente anche il nostro per sessioni intervallate da periodi di ritiro che corrispondono alle festività religiose e civili. La sessione invernale si conclude fra pochi giorni, poi ci sarà Pesach, la pasqua ebraica, Iom haShoà che ricorda il genocidio dei nazisti, le due giornate accoppiate di Iom haZicharon, per la commemorazione dei militari israeliani caduti in guerra e delle vittime del terrorismo, e Iom ha Azmaut, la festa dell’indipendenza sempre molto allegra e particolarmente sentita quest’anno perché ricorre il settantacinquesimo anniversario della fondazione di Israele. E infine Shavuot, la festa religiosa solenne che ricorda la rivelazione del Sinai. Le sessioni parlamentari ricominceranno insomma fra più di un paio di mesi. E con esse sarà di nuovo all’ordine del giorno il problema della riforma giudiziaria, giudicata urgente da tutti i membri della maggioranza e non solo da loro.
Il problema delle trattative
Nel frattempo però la politica non cesserà di lavorare. Se la pressione congiunta della piazza, dei media, dell’amministrazione Biden e da ultimo dei sindacati rischiava di dividere il governo ed è riuscita a sconfiggerlo nell’intenzione annunciata di approvare le prime leggi della riforma durante questa sessione parlamentare, ora tocca all’opposizione il rischio di dividersi. Era certamente facile contrastare la maggioranza con slogan sul colpo di stato e il rischio per la democrazia (che non sono stati mai neppure lontanamente reali), ma ora che la sua pre-condizione per iniziare una discussione sulla riforma, cioè la sospensione del processo legislativo, è stata accettata, essa deve fare delle proposte per entrare nel negoziato. E non è affatto detto che le sue posizioni siano chiare e condivise. Il leader del partito nazionale Gantz, per esempio, ha detto di essere disposto a negoziare in buona fede e aveva già dichiarato di accettare lo schema di mediazione del presidente di Israele Itzhak Herzog. Su tutti e due questi punti Yair Lapid, capo del partito più grande dell’opposizione, sembra meno disponibile e non lo è per nulla Marav Michaeli che guida il partito socialista. Vi sono poi settori dei manifestanti ancora più estremi. Certamente un ruolo importante nella discussione dovrebbe spettare al presidente Herzog, che però si è già esposto prendendo posizioni vicine a quelle dell’opposizione, il che rende difficile un ruolo di mediazione attivo.
Gli obiettivi politici
In generale la sospensione dell’iter delle leggi e il ritorno di un negoziato fra maggioranza e opposizione rischia di rendere le cose più complicate proprio per quest’ultima. Essa dovrà infatti decidere quali sono gli obiettivi cui intende condurre il movimento con cui ha forzato la Knesset a interrompere un processo legislativo perfettamente regolare dal punto di vista giuridico. Vorrà impedire l’approvazione non solo della riforma giudiziaria, ma di tutte le leggi su cui si è impegnato l’attuale governo? Chi governerà allora il paese? È concepibile che dei manifestanti che sono stati numerosi ma pur sempre una piccola minoranza del paese, pretendano di sostituire il parlamento nelle scelte politiche? Che democrazia sarebbe questa? O l’obiettivo è di far cadere il governo e andare a nuove elezioni? A parte il fatto che il governo ha saputo mantenere la sua unità anche nella difficile e controversa scelta della sospensione dell’iter della riforma, anche se in qualche modo fosse costretto a dimettersi e si arrivasse in autunno a una sesta elezione nel giro di quattro anni, anche i sondaggi più favorevoli all’opposizione non prevedono una maggioranza alternativa che non comprenda i partiti arabi più estremisti, quelli che hanno dimostrato solidarietà con gli attentati terroristi degli ultimi mesi. E dunque si riproporrebbe il problema che ha fatto cadere il penultimo governo, quello presieduto da Bennett e poi da Lapid: l’impossibilità di convivenza nella maggioranza di nazionalisti arabi ed ebraici, un partito guidato da ex generali israeliani e un altro da chi rifiuta lo stato di Israele, laicisti antireligiosi e fedeli del Corano.
La crisi politica continua
Insomma la questione dei problemi politici di Israele non è affatto risolta. Anche perché il terrorismo resta un pericolo molto attivo, l’Iran è sempre più armato e vicino all’atomica anche grazie all’appoggio russo, l’amministrazione americana vede con fastidio ogni gesto di indipendenza dello stato ebraico. E in più ci sono le ferite della ribellione di questi giorni che non saranno facili da sanare. I riservisti delle forze armate che hanno rifiutato per motivi politici i periodici richiami in servizio, per esempio, potranno ora rientrare senza che il rapporto di fiducia fra loro e i comandi siano incrinati? Certamente Israele, per non perdere la propria credibilità nella regione, che è un elemento di sicurezza fondamentale, dovrà agire con decisione. E toccherà anche alla minoranza consentirlo. Ma comunque due o tre mesi passano in fretta e poi si riproporrà la questione della riforma giudiziaria, probabilmente senza che le trattative portino a un accordo. Insomma la crisi politica, purtroppo, non si è affatto conclusa con il discorso di Natanyahu sulla sospensione. Anzi, la vera partita inizia adesso. E il vecchio leader, forse, lungi dall’essere sconfitto, ha trovato una via per ribadire la sua leadership.