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    ISRAELE

    L’ottava arena: la nuova funzione di X svela la guerra contro Israele sui social

    La nuova funzione di trasparenza introdotta da X ha aperto un vaso di Pandora senza precedenti nella comprensione delle campagne di disinformazione che negli ultimi due anni hanno preso di mira Israele. Basta un clic per vedere la presunta posizione geografica reale di un account, la data di creazione e le modifiche al nome. Un dettaglio tecnico che ha fatto luce su un tipo di propaganda – già utilizzata dai russi – basata su bot, profili falsi e reti coordinate di influenza che per anni hanno operato al riparo dell’anonimato.
    Decine di migliaia di profili che si presentavano come testimoni diretti da Gaza: infermieri sotto i bombardamenti, padri in fuga dai campi di sfollati, o persino soldati dell’IDF. Tutti improvvisamente smascherati. Le loro posizioni reali non avevano nulla a che fare con Gaza o con Israele, ma risultavano invece in paesi come Pakistan, Russia, Nigeria, Bangladesh e Polonia. Alcuni di questi profili avevano raccolto migliaia di dollari in donazioni; altri erano diventati fonti virali di testimonianze false, costruite per alimentare rabbia e indignazione. E, in alcuni casi, gli utenti hanno continuato a pubblicare come se nulla fosse, ignorando completamente la rivelazione.
    La portata del fenomeno è confermata anche dalla società israeliana di intelligence privata, Cyabra, citata da Fox Business: sono stati identificati oltre 40.000 account impegnati nella diffusione di messaggi filo-Hamas su X, Facebook, Instagram e TikTok. Questi profili, che rappresentano circa un quarto dell’intera conversazione globale sui temi legati agli attacchi di Hamas, avrebbero prodotto 312.000 post e commenti, con alcuni account attivi centinaia di volte al giorno. Secondo Cyabra, si tratta di una rete coordinata che sfrutta hashtag e interazioni incrociate per amplificare artificialmente emozioni, narrazioni e punti di vista.
    Ma il dettaglio più inquietante è la sofisticazione di questo fenomeno: azioni coordinate di reti di influenza digitali orientate non verso la comunità internazionale, ma verso il pubblico israeliano. Una dimensione che molti esperti definiscono ormai “l’ottava arena” del conflitto: la guerra psicologica e informativa combattuta nel cuore dei social network.
    Nelle ultime ventiquattro ore sono emerse prove di come i bot in ebraico abbiano agito negli ultimi due anni per influenzare la percezione della guerra, la questione degli ostaggi, la fiducia nel governo e perfino il morale nazionale. Un tassello fondamentale per capire questa realtà è il report pubblicato alla fine del 2024 dall’INSS, l’Institute for National Security Studies. Lo studio ha analizzato l’attività della rete Isnad (in arabo “supporto”), un’organizzazione gestita dalla Turchia da un cittadino egiziano, Izz al-Din Dwidar. Una rete che, secondo gli analisti, è riuscita a inserirsi nelle conversazioni più sensibili della società israeliana, imitando perfettamente linguaggi, paure e posizioni politiche locali. In altre parole: non parlava agli israeliani, parlava come gli israeliani.
    Secondo l’INSS, la strategia di Isnad si basava su un massiccio bombardamento di messaggi: contenuti prodotti da un gruppo ristretto di “manager” che conoscevano in profondità la società israeliana e capaci di reagire quasi in tempo reale agli eventi sul campo. I profili utilizzati erano costruiti in modo estremamente credibile: nomi ebraici, foto apparentemente autentiche, biografie convincenti, un uso dell’ebraico reso possibile da strumenti di intelligenza artificiale in grado di superare la barriera linguistica. Le analisi hanno inoltre identificato una suddivisione strutturata del lavoro: decine di super-operatori capaci di pubblicare fino a seicento post ciascuno, affiancati da centinaia di operatori attivi e oltre un migliaio di operatori occasionali. Una macchina perfettamente oliata.
    L’elemento forse più rilevante è la scelta dell’identità politica da adottare. Quasi tutti i profili finti si presentavano come israeliani di centrosinistra, critici del governo, vicini alle famiglie degli ostaggi e favorevoli a un accordo immediato per la loro liberazione. Una scelta tutt’altro che casuale: secondo lo studio, la rete aveva individuato tre “sensori” emotivi della società israeliana sui quali intervenire per massimizzare l’impatto. Il primo era la frattura politica interna e la sfiducia verso il governo. Il secondo era la ferita aperta degli ostaggi, un tema capace di mobilitare sentimenti profondi e spesso divergenti. Il terzo era il dolore per il prezzo della guerra e la paura di un conflitto prolungato su più fronti. Sfruttare questi tre punti significava inserirsi esattamente dove la società israeliana era più vulnerabile.
    Uno degli obiettivi della rete era anche far circolare i comunicati del portavoce militare di Hamas, aggirando la censura israeliana e portando direttamente al pubblico messaggi concepiti per alimentare paura, divisione e pressione psicologica. Un esempio concreto di come la guerra ibrida contemporanea operi ormai ben oltre le armi tradizionali: oggi il fronte passa anche attraverso la manipolazione delle emozioni, la distorsione delle informazioni e l’imitazione digitale di comunità e gruppi politici.
    L’ottava arena non funziona solo diffondendo menzogne o propaganda: funziona soprattutto sfruttando le crepe interne di una società aperta. E Israele, come ogni democrazia esposta e polarizzata, è un terreno particolarmente fertile per questo tipo di operazioni.

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