Una guerra che non finisce
La guerra intorno a Israele prosegue ed è difficile vederne una conclusione. Ogni giorno vi sono notizie di scontri a Gaza, di attacchi missilistici dal Libano e altrove e di episodi di violenza antisemita più o meno grave ma purtroppo assai frequenti in quello che è diventato un nuovo fronte di guerra a bassa intensità contro il popolo ebraico diffusa in tutto l’Occidente, soprattutto nelle zone franche assicurate dalle università. Le truppe israeliane sono ora impegnate ad approfondire la pulizia di Gaza dai terroristi. Nei giorni scorsi c’è stata una serie importante di scontri nella città di Jabalia, nel nord della striscia in quartieri che non erano stati finora occupati e dove i terroristi si stavano riorganizzando. Ci sono stati combattimenti anche nella zona centrale dove ancora vi sono delle enclaves non controllate.
Rafah
Al sud l’operazione di Rafah procede per ora non come alcuni immaginavano, cioè alla maniera di una grande battaglia frontale, ma per piccoli passi, strada dopo strada. Questo accade innanzitutto perché la tattica terrorista è quella della guerriglia: fuggire e nascondersi quando si è più deboli e di uscire allo scoperto solo per compiere agguati e incursioni. Le famose rete di gallerie di Hamas serve a questo: per rifugiarvisi evitando lo scontro e per uscirne di nuovo da un’altra parte, quando sembra possibile prendere alle spalle gli israeliani. Sono state costruite per centinaia di chilometri proprio pensando a quest’uso e purtroppo funzionano. Della attica della guerriglia fa parte tra le altre cose non accettare la sconfitta, anche quando la sproporzione di forze diventa grande: basta che qualcuno continui a sparare. Vi è poi la presenza di una popolazione che volente o nolente fa da scudo umano ai terroristi e anche la pressione di alleati e terze parti che temono di pagare un prezzo politico per la vittoria di Israele e cercano di rallentarla e possibilmente di bloccarla. A Rafah poi vi è il problema dell’Egitto, che teme sia l’immigrazione di rifugiati da Gaza, fra cui si mescolerebbero i terroristi, sia il controllo israeliano del confine che potrebbe rivelare quanta complicità ci sia stata da parte egiziana per il loro armamento. È un coinvolgimento che sembrava escluso per l’appartenenza di Hamas alla Fratellanza Musulmana, che in Egitto è nemica di Al Sisi e anche per le operazioni propagandistiche esibite anni fa dall’esercito egiziano sommergendo con acqua e liquami qualche tunnel di contrabbando. Ma le truppe israeliane, avanzando verso il centro di Rafah dal corridoio “Filadelfia” che segna il confine, hanno trovato finora almeno 50 gallerie transfrontaliere attive. Ce ne sono indubbiamente molte altre, fra cui quelle in cui sono tenuti prigionieri i rapiti ancora vivi, o accatastati i loro corpi, se sono stati uccisi.
I venditori di cadaveri
Venerdì l’esercito israeliano ha denunciato di aver trovato nei tunnel ispezionati tre corpi di rapiti del 7 ottobre, uccisi poco dopo il pogrom e trattenuti dai terroristi. A quanto pare è in corso un’ispezione vasta nei cimiteri di Rafah con il sospetto di trovarne degli altri nascosti in questa maniera. Al di là della barbarie del pogrom, degli stupri, delle stragi, dei rapimenti condotti non solo dai terroristi inquadrati da Hamas ma anche da “civili innocenti”, emerge ora quest’altro orrore del trattenere le salme per venderle poi in cambio di un prezzo politico o militare. Non a caso nella proposta di Hamas della proposta di cessate il fuoco si parlava di “ostaggi vivi o morti”. Si volevano commerciare le salme degli assassinati. Agli occhi degli occidentali, non solo degli ebrei, questo dovrebbe essere l’abominio assoluto, già descritto in opere come “Antigone” o quel brano dell’ “Iliade” in cui il padre di Ettore si inginocchia davanti a chi l’ha ucciso per averne indietro il corpo straziato; e anche l’ira di Achille cede alle ragioni dell’umanità. Ma il commercio di salme è un costume che i terroristi islamici hanno praticato spesso e con la massima crudeltà: a Gaza in questa e altre operazioni ma anche in Siria (Ron Arad ed Elie Cohen). È un tema che gli apologeti del terrorismo non sfiorano mai, anche se proclamano di avere ragioni etiche; ma che dà un’idea precisa del livello morale dei loro eroi.
La situazione attuale
La guerra a Gaza si è insomma diluita e cronicizzata. È impossibile concluderla senza aver eliminato il potere militare di Hamas, perché il terrorismo ne trarrebbe la conseguenza di poter progettare subito altri 7 ottobre, ma per farlo non basta eliminare le sue maggiori formazioni militari e le fortificazioni sotterranee, occorre controllare il territorio, anche se magari nella forma che lo stato maggiore dell’esercito israeliano ha scelto, cioè entrare nella Striscia, bonificare una zona e poi staccarsene e uscire per non offrire bersagli al terrorismo. In fondo è quello che le forze di sicurezza israeliane fanno da anni in Giudea e Samaria e funziona. Ciò naturalmente esclude il piano per il dopoguerra condiviso da americani e da alcuni politici israeliani, cioè chiudere a un certo punto l’operazione e affidare il territorio a forze palestinesi, anche se non di Hamas (cioè per forza l’altro grande movimento, anch’esso terrorista, che controlla l’Autorità Palestinese, cioè Al Fatah). Come ha spiegato Netanyahu sostituire un Hamastan con un Fatahstan non è affatto una soluzione, perché le cose continuerebbero come prima. Del resto l’ala militare di Fatah, le “brigate di Al Aqsa”, continuano a rivendicare la loro partecipazione al 7 ottobre. E dunque bisogna pensare che ci sarà a Gaza ancora una fase abbastanza lunga di caccia ai terroristi, e poi una situazione in cui comunque l’esercito dovrà aver via libera per impedire ogni nuova concentrazione delle loro forze.
Il nord
Nel frattempo però si sta lentamente ma progressivamente scaldando il fronte settentrionale, dove Hezbollah ha forze ben più ingenti di quelle di Hamas, in Israele vi sono centinaia di migliaia di sfollati dai centri della Galilea e l’esercito israeliano schiera le proprie migliori unità pronte per intervenire. Gli scambi di colpi ora vanno in profondità e comportano salve di decine di missili. Non è un bel pensiero, ma forse la fase più difficile della guerra deve ancora incominciare. Perché non si tratta di un conflitto fra Israele e Hamas, ma di un’aggressione coordinata e ben pianificata contro la stato ebraico da parte di un grande schieramento guidato dall’Iran. E che siano stati annunciati ieri dei “colloqui indiretti” fra Usa e Iran in corso in Oman che dovrebbero riguardare “l’equilibrio del Medio Oriente”, lascia molte perplessità e molti sospetti.