Le rappresaglie annunciate – e non realizzate
Sono passate quasi tre settimane dall’eliminazione a Beirut del numero due di Hezbollah, Fouad Sukar, e di quella a Teheran di Ismail Haniyeh, capo dell’ufficio politico di Hamas; quasi un mese dall’attacco dell’aeronautica militare israeliana contro il porto di Hodeida nello Yemen. È stata una serie di colpi durissimi ai satelliti dell’Iran, per cui ciascuno di loro ha promesso vendetta. Lo hanno fatto anche gli ayatollah, con dichiarazioni infuocate del leader supremo dell’Iran Ali Khamenei. Si è a lungo discusso sulla forma che avrebbe avuto la rappresaglia di questo “asse del male”; si sono sprecate dichiarazioni pro e contro: c’è stata un grande stato d’allarme da parte di Israele; gli Usa hanno spedito in Medio Oriente un terzo della loro flotta; vi sono state missioni diplomatiche per indurre a miti consigli gli ayatollah, respinte con sdegno da loro. Ma almeno fino al momento in cui questo articolo viene scritto (domenica sera), niente è successo se non il consueto scambio di colpi fra Israele, che mira a eliminare capi militari e risorse strategiche di Hezbollah e i terroristi libanesi, che puntano invece piuttosto su case e automobili civili. Il lento e minuzioso lavoro di smantellamento delle risorse militari di Hamas è proseguito, contrastato da agguati e da pochi lanci di missili ormai incapaci di raggiungere bersagli significativi.
Perché non è accaduto
Insomma non c’è stata la catastrofe prevista. Hezbollah ha detto che per reagire aspettava la conclusione delle trattative sul cessate il fuoco promosse dagli Usa, l’Iran ha sostenuto che si sarebbe vendicato al momento più opportuno, gli Houti hanno ripetute le solite minacce apocalittiche. È un’inazione che costa all’asse del male una notevole perdita di faccia. Perché non è successo niente? Non certo perché Iran e soprattutto (per via della vicinanza geografica) Hezbollah manchino dei proiettili con cui potrebbero bombardare Israele facendo probabilmente gravi danni. E neppure per la presenza americana che non ha dissuaso gli ayatollah a cercare di farlo ad aprile. Quel che è successo è probabilmente che alcuni colpi, come la reazione israeliana di aprile molto moderata ma abbastanza penetrante da mostrare la capacità di colpire in profondità e poi il bombardamento stesso di Hodeida, non più vicino dei siti atomici dell’Iran, hanno convinto gli ayatollah che non era nel loro interesse scatenare un conflitto aperto, che avrebbe sì potuto far molto male a Israele, ma avrebbe forzato la posizione americana in favore dello Stato ebraico e avrebbe comportato la distruzione del programma nucleare di Teheran e lo smantellamento di Hezbollah. Un classico caso di deterrenza. È possibile che questa guerra inizi davvero, perché l’Iran si potrebbe decidere a volerla (ma allora non sarebbe più vista dal mondo come una reazione, bensì un’iniziativa nuova e una pericolosa escalation) o perché Israele di fronte a una minaccia incombente potrebbe ritenere necessario un attacco preventivo come accadde nella Guerra dei Sei Giorni. Ma per il momento la guerra segue altre strade più tortuose e indirette.
Il negoziato
Una di queste è la trattativa per il cessate il fuoco, voluta con tutte le forze dall’amministrazione Biden. Bisogna dire che a Israele questo negoziato non conviene. Da quel che si capisce gli Usa e i due “mediatori” (che non sono affatto a metà fra le parti, dato che il Qatar è il più diretto protettore di Hamas e l’Egitto ha assunto una posizione più chiaramente antisraeliana via via che emergevano i tunnel di Rafah e la sua complicità con Hamas) vorrebbero che Israele cedesse in cambio di una piccola parte degli ostaggi (una trentina “vivi o morti”, secondo Hamas) non solo una quantità di condannati esperti e pericolosi che darebbero nuova linfa al terrorismo, come hanno fatto quelli scambiati per Gilad Shalit, fra cui lo stesso Sinwar; ma anche concessioni sul terreno tali da rischiare di rendere inutili i terribili sacrifici compiuti da Israele per difendesi da Hamas.
Quel che vuole Hamas
Riprendendo una sintesi di fonte israeliana, ci sono tre ostacoli principali sul cammino per raggiungere un accordo sugli ostaggi. Hamas vuole sopravvivere e riarmarsi per mantenere il controllo della Striscia di Gaza. Per questo ha bisogno in primo luogo che Israele si ritiri dal “tubo dell’ossigeno” del corridoio Philadelfi (il confine fra Gaza e l’Egitto), in modo che più razzi, armi ed esplosivi fluiscano dall’Egitto. Hamas vuole poi anche consentire a tutti, compresi i terroristi armati, di tornare nel nord di Gaza in modo da ristabilirvi il suo dominio: una possibilità che Israele ha cercato di evitare in tutti i modi, in particolare istituendo a metà della striscia un filtro sorvegliato dalle truppe, il corridoio Netzarim. Infine, Hamas vuole un impegno scritto con garanzie internazionali che, qualunque cosa succeda, Israele non riprenderà alcuna azione militare contro di loro a Gaza. In sostanza, Hamas vuole poter dire che ha vinto la guerra e anche vincerla davvero, perché secondo queste condizioni, si ritroverebbe subito nella condizione di potersi riarmare e di riprendere l’offensiva quando lo ritenesse vantaggioso.
Il controllo della striscia
La questione di chi governerebbe Gaza sarebbe in questo caso poco significativa: nell’Autorità Palestinese e soprattutto negli “innocenti civili di Gaza” ci sono evidenti e permanenti simpatie per Hamas, che la riporterebbero al potere anche dopo elezioni o un commissariamento dell’Autorità Palestinese; un corpo di pace internazionale sarebbe totalmente inefficace di frenare i terroristi, come si vede anche in questi giorni con l’Unifil in Libano; i finanziatori e i fornitori d’armi, Iran in testa, sono pronti a sostenere il riarmo. I paesi occidentali hanno mostrato, cercando di impedire l’ingresso israeliano a Rafah, la ripulitura di Filadelfi, le operazioni che l’esercito israeliano ha fatto in questi mesi, di non volere la distruzione di Hamas, in cui peraltro non crede l’opposizione israeliana e anche certi settori delle agenzie di sicurezza e dell’esercito. E però solo un controllo di sicurezza israeliano, protratto per parecchi anni, renderebbe impossibile la ripetizione del 7 ottobre.
Il difficile compito del governo di Israele
Oggi fra la resa nelle trattative che richiede Hamas, appoggiato dall’amministrazione Biden, dall’Europa e naturalmente da Russia, Cina e paesi musulmani, vi è solo la volontà della maggioranza degli israeliani e l’azione del governo, che viene spesso attaccata per questo soprattutto co una campagna violentissima contro Netanyahu. Il quale, da abile ed esperto politico qual è, mentre cerca di dare tempo all’esercito perché continui il suo difficile lavoro sul terreno, non si contrappone frontalmente alle pressioni americane, ma cerca di far vedere che i veri nemici della pace ancora oggi sono Hamas e i suoi protettori. Chi ama Israele non può che sperare che abbia successo.