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    ISRAELE

    La settimana di Israele – Tra Gaza e la Siria

    Ecocidio
    La guerra sta entrando nel ventesimo mese e non accenna a cessare. C’è stato un nuovo tentativo di usare gli incendi dei boschi come arma terrorista, secondo uno schema distruttivo usato molte volte da Hamas, senza che i verdi europei protestassero mai per questo ecocidio: i danni sono stati gravi, ma per il momento sembra che il pericolo del fuoco sia passato, anche grazie alla solidarietà internazionale: molti paesi fra cui l’Italia hanno spedito in Israele i propri aerei anti-incendio.

    Strategie al confronto a Gaza
    Quel che succede a Gaza è determinato dalla strategia di Hamas che punta a “logorare” l’esercito israeliano in una guerra d’attrito e bloccare la sua reazione con la pressione internazionale. Il movimento terrorista ha approfittato della tregua per cercare di rifornirsi di armi, soprattutto con l’uso di droni; per riposizionare le sue forze e reclutare nuovi combattenti. Israele è deciso a schiacciare il gruppo terrorista bloccando i suoi rifornimenti, isolandolo fisicamente dalla popolazione, smantellando le sue installazioni e i suoi depositi, eliminando i suoi quadri e infine stabilendo un controllo effettivo su tutto il territorio della Striscia, invece della vecchia logica delle incursioni. Per questo ha mobilitato di nuovo molte migliaia di riservisti, ha stabilito dei corridoi traversali presidiati per impedire la mobilità dei terroristi e mantiene delle zone cuscinetto al confine fra Gaza e Israele. Inoltre ha bloccato da qualche tempo i rifornimenti “umanitari” che servivano soprattutto a Hamas, in modo da obbligare i terroristi a utilizzare le loro abbondanti riserve. Quando la popolazione civile avrà davvero bisogno di aiuti Israele farà in modo di distribuirli in modo che non siano depredati da Hamas. È una strategia che funziona e può portare alla vittoria se si riuscirà a continuarla per qualche tempo. Per questa ragione Hamas spinge sulla propaganda internazionale cercando di fermare a tutti i costi l’offensiva di Israele e dunque la sua sconfitta e conta sull’aiuto ormai chiarissimo delle organizzazioni di sinistra che sotto il sempre più esile velo umanitario si battono ormai esplicitamente in favore dell’azione dei terroristi. Ne abbiamo avuto la prova anche in Italia con trasmissioni televisive, appelli a manifestazioni sindacali, prese di posizioni dei leader della sinistra.

    Libano e Yemen
    La guerra però ha altri fronti. In Libano sembrano ormai molto deboli i resti di Hezbollah, ormai diffidati anche della autorità locali a cessare ogni tentativo di offensiva contro Israele. In Yemen gli Houti provano ancora a lanciare missili balistici su Israele, che sono regolarmente abbattuti dalle armi difensive; ma soprattutto sono essi stessi soggetti ai bombardamenti americani, che li colpiscono molto pesantemente. Bisogna tener conto però che lo Yemen è un paese molto grande, dall’orografia difficile ed è perciò lungo e complicato eliminare i missili degli Houti. Anche in questo caso si tratta di una guerra di logoramento, che se portata avanti abbastanza a lungo porterà alla sconfitta e al rovesciamento degli Houti, che non sono il governo legittimo dello Yemen, ma solo un gruppo ribelle mantenuto dall’Iran.

    Siria
    Ha preso molta importanza il fronte siriano. Qui è Israele ad attaccare ora il regime sunnita di Al Jolani, che ha preso il posto di quello alawita di Assad. Il nuovo leader si è molto impegnato nei mesi scorsi a dichiarare la volontà di convivere pacificamente con le diverse anime del suo paese e i vicini, incluso Israele. Ma si trattava di semplice propaganda per dissipare la diffidenza generale. Un’operazione di relazioni pubbliche che ha avuto molto successo soprattutto in Europa, così desiderosa di amare i propri nemici. Le truppe di Jolani e lui stesso sono però state formate nell’estremismo integralista dell’Isis e hanno una vocazione totalitaria che impedisce loro di sopportare davvero la presenza di realtà differenti dove comandano. Poco dopo aver preso il potere hanno incominciato a invadere le zone alawite sulla costa, non certo solo per impedire l’organizzazione di una resistenza del vecchio regime, ma con chiare intenzioni terroristiche di massa, per sterminare quelli che considerano nemici religiosi: esse si sono realizzate con spaventosi eccidi. Da un paio di settimane queste forze terroriste sunnite si sono volte verso la zona drusa, al confine con Libano, Israele e Giordania. I drusi sono un piccolo popolo fiero e combattivo con una religione iniziatica derivante dall’Islam sciita, che pratica la politica di essere fedele a ogni stato in cui abita, purché ne rispetti identità e tradizioni. In Israele sono leali cittadini e combattenti spesso eroici delle forze armate; in Siria avevano sempre mantenuto fedeltà ai vari regimi. Non aveva senso dunque per le milizie di Jolani attaccarli, ma così è successo, per intolleranza e fanatismo. I drusi hanno chiesto aiuto a Israele che, dopo qualche comprensibile riflessione, l’ha concesso per allontanare i terroristi sunniti dal proprio confine e anche per sincera amicizia coi drusi israeliani. Vi sono stati dunque numerosi bombardamenti israeliani su concentramenti di truppe siriane ed è probabile che Israele sostenga la costituzione di uno stato druso, anche con le armi.

    Iran e di nuovo Hamas
    La testa del mostro anti-israeliano è sempre l’Iran. Qui le trattativa fra Usa e ayatollah per un blocco consensuale dell’armamento nucleare del regime sono andate avanti per un po’, poi si sono fermate per le solite tattiche dilatorie degli ayatollah. Ma sta per venire a scadenza un ultimatum di Trump, che a metà febbraio aveva dato due mesi all’Iran per trovare un accordo. Più il tempo passa, più potrebbe essere probabile un’azione militare congiunta di Usa e Israele per distruggere l’arsenale atomico e missilistico del regime e magari per abbatterlo. Sarebbe la mossa decisiva di questa guerra. Oltre al negoziato fra Iran e Usa sul nucleare si è bloccato anche quello sempre promosso dagli americani ma gestito dagli egiziani sul rilascio dei rapiti. Questa trattativa si incrocia con la guerra sul campo di Gaza. Hamas non mollerà la propria assicurazione sulla vita senza ottenere quello che Israele non può concedere: una fine della guerra (loro dicono una tregua di cinque anni) che lasciasse ai terroristi le loro armi e dunque il potere su Gaza e la possibilità di ritentare altri 7 ottobre quando ne avessero l’occasione, come loro stessi proclamano spesso. Per la prima volta Netanyahu ha dichiarato che la vittoria, cioè la distruzione o la resa di Hamas, è un obiettivo che ha la precedenza sulla liberazione dei rapiti (sulla cui sopravvivenza peraltro si infittiscono i dubbi). È un discorso molto difficile da fare, che può apparire insensibile e però tiene conto del futuro e della necessità di assicurare la sicurezza di tutti gli israeliani, che sarebbe certamente a rischio se Hamas sopravvivesse alla guerra.

    Finisce la saga dello Shin Bet?
    Un ultimo tema importante emerso in questa settimana è la possibile soluzione di compromesso alla difficile vicenda della ribellione di Ronen Bar, il capo dello Shin Bet (il servizio segreto interno di Israele), che aveva rifiutato di accettare il suo licenziamento approvato dal gabinetto, anche se la legge concede esplicitamente questo potere al governo e le responsabilità di Bar sul 7 ottobre e sulla gestione successiva dello Shin Bet sono chiarissime e molto gravi. In appoggio a Bar era intervenuta la Procuratrice Generale e consigliera giuridica del governo Gali Baharav-Miara, nonostante l’evidente conflitto di interessi dovuto al fatto che Bar fosse un suo amico di famiglia. Poi si era messa di mezzo la Corte Suprema, che, implicitamente ritenendosi superiore alla lettera della legge, aveva stabilito per due volte una sospensiva del licenziamento, senza motivarla. Ora Bar ha finalmente dato le dimissioni (con scadenza 15 giugno) e il governo ha rinunciato al licenziamento per eliminare il contenzioso giudiziario. Se non sarà sollevato qualche nuovo inghippo di qui al 15 giugno, almeno questa ragione di divisione nella politica israeliana è superato.

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