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    ISRAELE

    La settimana di Israele – La guerra si prolunga

    Notizie significative (e non)
    Come in tutte le guerre, anche in quella di Gaza la maggior parte del tempo passa in movimenti di truppe, piccoli scontri, incidenti minori, senza che vi siano cambiamenti decisivi, quelli che per il giornalismo sono notizie. Così è andata anche l’ultima settimana. Grande attenzione mediatica è stata dedicata ai danni (fra cui purtroppo a quanto sembra tre morti) provocati a una chiesa di Gaza dai detriti di un colpo imperfetto di un carro armato israeliano. La chiesa non è stata colpita direttamente né distrutta, l’attività liturgica continua. Il colpo ha fatto cadere un pezzo del frontone, che involontariamente e sfortunatamente è finito su alcuni fedeli. Tutt’altra cosa dall’assalto con le bombe da parte di islamisti a una chiesa di Damasco che fece 27 morti il 22 giugno o dalle stragi che i gruppi armati dell’Isis compiono quotidianamente ai danni dei cristiani in Africa centrale, un vero e proprio genocidio programmato. Ma si sa, “no Jews no news”, se non si possono incolpare gli ebrei la notizia non è interessante.

    A Gaza l’avanzata continua
    Resta il fatto che a Gaza le cose procedono lentamente, anche se con costanza. L’esercito israeliano conquista terreno secondo la nuova strategia di occupazione (ormai è al 65%) e continua a eliminare i capi che individua; i terroristi di Hamas non hanno la forza di sostenere battaglie ma tentano aggressivamente di tendere agguati ai soldati e ogni tanto purtroppo riescono a colpirli; la Gaza Humanitarian Foundation prosegue nel distribuire soccorsi alimentari alla popolazione (milioni di pasti al giorno) con l’appoggio di Israele e soprattutto sottraendo gli aiuti al pizzo di Hamas, nonostante i tentativi dei terroristi di creare disordini e impedire alla popolazione di ricevere i soccorsi.

    Perché la guerra non finisce
    Ormai insomma è evidente che Israele ha vinto anche questa battaglia. Perché dunque non finisce questa guerra, come tutti, gli israeliani prima di chiunque altro, vorrebbero? La ragione è che perché una guerra finisca bisogna che gli sconfitti depongano le armi e Hamas non è disposto a farlo, preferisce continuare a insidiare l’esercito israeliano con la guerriglia, anche se paga un costo notevole in termini di combattenti uccisi e ne fa pagare uno anche più grave agli abitanti di Gaza. Perché non si arrende, anche se ha ricevuto offerte informali assai generose (esilio e non morte per i capi, amnistia per i combattenti che si consegneranno)? Perché questa ostinazione continua anche dopo che i maggiori capi dei terroristi sono stati eliminati, testimoniando di una volontà diffusa in tutto il gruppo? Una ragione è la cultura islamica dell’“onore” che lo impedisce. Un’altra è l’idea maoista che una guerriglia che perde le battaglie contro un esercito superiore ma non si scioglie, in realtà sta vincendo. E poi c’è la questione dei rapiti. Finché potrà ricattare la società israeliana con coloro che ha sequestrato, Hamas ritiene di avere le carte per sopravvivere. Il fatto è che chi è lucido in Israele, a partire da Netanyahu ma inclusi anche settori importanti dell’opposizione, sa benissimo di non poter permettere una fine della guerra che permetta la continuità di Hamas al governo di Gaza, perché questo non solo vorrebbe dire sprecare i sacrifici fatti finora, ma far sì che nel giro di qualche anno i terroristi siano di nuovo in grado di assaltare Israele quando lo riterranno più opportuno, con la certezza di altre stragi e un’altra guerra, probabilmente ancora più difficile di quella in corso. E questa sarebbe un incoraggiamento non solo per Hamas, ma per tutti coloro che odiano lo Stato ebraico. Israele non può permetterselo. Le trattative dunque e anche le eventuali tregue sono soprattutto mosse di relazioni pubbliche, che non possono interrompere davvero il braccio di ferro in corso.

    Siria
    Durante la settimana appena trascorsa vi sono stati altri episodi significativi al di fuori di Gaza. Uno è il problema dei curdi in Siria, che Israele sta cercando di aiutare possibilmente senza farsi coinvolgere in una guerra sul terreno. Le ragioni dell’aiuto sono la fraternità coi drusi molto importante anche all’interno di Israele e la necessità di impedire che si solidifichi al confine del Golan una zona di guerriglia come quella del Libano meridionale. La situazione è resa complicata dal fatto che il presidente autonominato della Siria, Al Jolani (un nome che allude al Golan…) gioca due parti in questa storia. Da un lato è in ultima istanza lui il capo delle truppe sunnite e beduine che hanno devastato con violenza criminale nei mesi scorsi le terre alawuite e ora vogliono fare lo stesso con i drusi; dall’altro si atteggia a capo di stato che vuole ristabilire la legge in Siria e in quanto tale è stato assai troppo facilmente accreditato dalla diplomazia internazionale, fino a incontrare Macron e Trump, che ora premono su Netanyahu. Il risultato è un meccanismo di tira-e-molla fra tregue e combattimenti, che rischia di lasciar sterminare i drusi o di obbligare Israele all’intervento.

    Governo in crisi
    Un secondo tema caldo è la crisi del governo israeliano. Con varie formule e in varia misura i partiti “charedim” hanno dichiarato di voler uscire dal governo e forse dalla maggioranza. La ragione è che reclamano una legge che confermi l’esenzione dalla leva degli studenti talmudici. È una condizione che fu decisa da Ben Gurion alla fondazione dello stato e confermata dai governi di tutti gli schieramenti politici. La corte suprema ha però obiettato che essa manca di base giuridica e c’è una forte corrente di opinione pubblica, anche fra i sostenitori della maggioranza di governo, che vorrebbe che tutti i ragazzi charedim, non solo i volontari che ci sono, condividessero i rischi e il costo della guerra. Negli accordi di fondazione del governo (prima della guerra) la legge per l’esenzione almeno parziale era prevista. I partiti charedim ora la pretendono, parte del Likud e dei sionisti religiosi non vogliono concederla. Se Netanyahu non riuscirà a trovare una mediazione, il governo cadrà. Ma questo può avvenire solo quando il parlamento è in sessione e ormai manca solo una settimana alla pausa estiva che durerà fino a dopo le feste ebraiche, alla fine di ottobre. La questione è dunque rimandata, ma non sciolta. Potrebbe portare a elezioni fra gennaio e febbraio dell’anno prossimo. Ma il parlamento scade comunque in autunno del 2026 e ormai il clima elettorale incombe. Nel frattempo chissà quante svolte e sorprese ci attendono, magari anche lo sbando definitivo di Hamas e la pace.

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