
Il piano Netanyahu
L’evento più importante della settimana è stata la decisione del gabinetto politico e diplomatico di accettare il piano proposto dal primo ministro Netanyahu per la fase conclusiva della guerra di Gaza. Come è noto si tratta della conquista progressiva di tutta la striscia di Gaza, a partire dal capoluogo Gaza City. Può sembrare strano, visto che parliamo di un’area di 360 kmq (il comune di Roma ne ha 1285, quello di Milano 181), ma vi è ancora una parte, circa il 30% della Striscia, dove l’esercito israeliano non è mai entrato in questi 22 mesi, o ha fatto solo brevi incursioni. È la zona dove sono asserragliati i terroristi, dove la presenza di trappole esplosive e di altri dispositivi di fortificazione è più frequente, dove vive ancora buona parte degli abitanti di Gaza sotto lo stretto controllo di Hamas, ma anche dove probabilmente sono tenuti i rapiti del 7 ottobre, almeno quei 20 circa che sono ancora in vita. L’esercito israeliano non era entrato in queste zone per evitare l’assassinio dei rapiti, minacciato da Hamas se si fosse avvicinato l’esercito; per la difficoltà di allontanare centinaia di migliaia di persone da quel che sarebbe diventato un pericolosissimo campo di battaglia; infine per la previsione di dover affrontare perdite cospicue manovrando su un terreno minato e fortemente presidiato dai terroristi. La scelta del governo è ora di superare queste difficoltà, con una prima fase di sfollamento della popolazione e poi un attacco massiccio su Gaza City, che potrebbe in seguito estendersi alle altre zone ancora controllate da Hamas. Il capo di stato maggiore Zamir si è detto contrario per le ragioni accennate, ma il suo piano alternativo è stato respinto dal Gabinetto.
Il dilemma della guerriglia
Per capire il senso e la necessità di questa scelta bisogna tener presente la banale verità che le guerre in generale finiscono con la resa della parte soccombente, quando le vicende del conflitto la costringono a prendere atto che non potrà prevalere in battaglia e insieme diventa insopportabile la distruzione delle infrastrutture del paese e le sofferenze della popolazione (che, spiace dirlo ma è una verità storica, hanno sempre avuto un peso essenziale in guerra). Così fu, per esempio, la conclusione della Prima Guerra Mondiale. In alternativa può esservi la conquista della capitale, come avvenne con la Germania nel ‘45. Se però l’esercito più debole rifiuta di arrendersi e continua a combattere con la tattica “mordi e fuggi” della guerriglia, sperando così di logorare il nemico che prevale sul fronte (come accadde con Mao nella “lunga marcia” o agli spagnoli in lotta con Napoleone o in Vietnam) i combattimenti si prolungano, la sofferenza della popolazione civile aumenta e alla fine può accadere che la parte più forte debba ammettere di non riuscire a piegare quella più debole e sia costretta a ritirarsi lasciando che i nemici si rafforzino fino a quando potranno attaccare (questo è quello che è successo negli esempi precedenti) oppure debba cercare di controllare tutto il territorio, distruggendo le formazioni guerrigliere, staccandole dalla popolazione, fino a costringerle alla resa.
L’ideologia dello scambio coi terroristi
La prima alternativa è ritirarsi da Gaza, mantenendo una “presenza periferica” ai confini della Striscia e sperando che la “lezione” a Hamas sia stata sufficiente per “restaurare la deterrenza”, ottenendo qualche tempo di calma fino al prossimo combattimento; e magari che i terroristi siano così generosi da liberare gli ostaggi in seguito al ritiro, magari negoziando in cambio la scarcerazione di alcune migliaia dei loro, inclusi i peggiori assassini. È questa un’illusione smentita dalla logica (che insegna come i rapiti siano il tesoro più grande e l’arma più preziosa per loro) ma anche da tutto quel che essi stessi hanno dichiarato sul tema; l’ultima versione è che libereranno i rapiti solo via via che procederà la “ricostruzione di Gaza”, l’ultimo atto dell’accordo che propongono, da condurre naturalmente sotto la loro direzione e presenza armata. Questa illusione è un aspetto della “konceptsia”, l’ideologia sostenuta dai vertici politici, militari e del servizi segreti nei confronti del terrorismo palestinese negli ultimi decenni: la teoria del bastone e della carota, meno bastone possibile e tanta carota in termini economici e anche spaziali (terra in cambio di pace), perché il terrorismo con si può eliminare, ma solo gestire. Questa teoria sembrava definitivamente smentita dal 7 ottobre e però ora riemerge nelle dichiarazioni dell’opposizione, ma anche dei vertici militari.
La strada scelta
L’altra alternativa è cercare di distruggere completamente Hamas, andando anche oltre la tattica dell’eliminazione dei suoi capi e della distruzione delle infrastrutture. Si tratta ora di toglierle ogni zona franca, imponendo la sua totale espulsione dalla Striscia e la costruzione di un regime politico e amministrativo che non le permetta di riemergere. Così fu fatto coi regimi nazifascisti: gli alleati dovettero occupare Germania, Italia, Giappone ecc., eliminare non solo l’esercito ma anche le vecchie strutture di governo, il partito totalitario, l’alta amministrazione; costruire un nuovo regime; assicurarsi che i nuovi sistemi politici non lasciassero spazio al ritorno del passato, prima di terminare l’occupazione dopo diversi anni. E questo è il piano di Netanyahu, articolato in maniera tale da permettere anche una resa prima della battaglia finale, sempre però con liberazione dei rapiti e espulsione dei quadri di Hamas, se essa dovesse intervenire nel frattempo. Ciò comporterà ancora disagi nella popolazione della Striscia e naturalmente altra propaganda e agitazione filo Hamas in Europa. Ma basta aprire un libro di storia per documentarsi su quel che è successo ai tedeschi alla fine del nazismo.
L’appoggio sconsiderato degli stati europei a Hamas
A questa analisi bisogna aggiungere una coda di politica internazionale. Come ha detto il segretario di stato (cioè il ministro degli esteri) americano Marc Rubio: “Hamas crede di vincere la guerra della comunicazione a livello mondiale e quindi non è disposta a fare alcuna concessione. […] Le trattative con Hamas sono crollate il giorno in cui il presidente francese ha riconosciuto unilateralmente lo Stato palestinese. I messaggi sul riconoscimento dello Stato palestinese hanno reso difficile raggiungere la pace e un accordo con Hamas.” Vale a dire: Hamas non gioca da solo. Ha a sua disposizione non i paesi arabi, che ne hanno ripetutamente richiesto la resa, l’abbandono delle armi e l’esilio, ma l’Europa e tutta la sinistra mondiale, che finge di credere che il problema di Gaza sia solo umanitario (o addirittura che vi si svolga un genocidio, che è una delle più grandi bufale propagandistiche della storia) e non una guerra che ha come posta l’esistenza dello stato di Israele, ma in futuro anche quella degli Stati democratici (cioè non islamici, non comunisti e postcomunisti). Infatti se Hamas dimostrasse che la falsa propaganda umanitaria può paralizzare l’autodifesa di un paese libero come Israele e costringerlo alla sconfitta contro la guerriglia urbana e il rapimento di cittadini, presto lo stesso accadrebbe anche agli stati europei che hanno già oggi una quota consistente di popolazione islamica radicalizzata, come Francia, Gran Bretagna, Svezia, Belgio e Olanda. Anche per questa ragione la scelta coraggiosa del governo israeliano difende il mondo libero, raccogliendo in cambio ostilità e boicottaggi. Per fortuna l’amministrazione americana comprende la posta in gioco e appoggia Israele. Ma non è l’unica a scommettere sulla resistenza dello stato ebraico; l’altra grande notizia della settimana è il contratto record concluso fra l’Egitto e Israele per la fornitura di gas naturale dal deposito sottomarino Leviathan per 130 miliardi di metri cubi fino al 2040, per il valore di 35 miliardi di dollari. Una durata, una quantità e un valore che è la più grande scommessa economica mai conclusa in questo ambito.