Israele è fra le zone archeologiche più interessanti del mondo. Mai centro di grandi imperi, ma sede permanente di una civiltà, quella ebraica, le cui tracce risalgono a 35 secoli fa, e poi soggetto a molteplici invasioni, che hanno a loro volta lasciato resti e monumenti. Forse per questo l’archeologia è una passione diffusa in Israele e i ritrovamenti fanno sempre notizia. Spesso però la ricerca è ostacolata dai palestinisti, che fanno il possibile per distruggere i resti ebraici, per cercare di nascondere le prove che smentiscono le loro pretese politiche. È così molto difficile condurre esplorazioni scientifiche dei luoghi che per una ragione o per l’altra sono sotto il loro controllo. Questo vale per il Monte del Tempio, dove gli archeologi hanno dovuto accontentarsi di studiare i resti abbandonati in discarica dei lavori edilizi di scavo condotti dal Wafq, la fondazione giordana che lo gestisce.
Lo stesso problema riguarda anche le Tombe dei Patriarchi a Hebron. Quel che si vede dalla città è un edificio monumentale costruito da Erode ventun secoli fa. Essa ospita su una piattaforma coperta elevata le tombe monumentali dedicate ad Abramo, Isacco e Giacobbe e alle loro mogli, cui però gli ebrei non avevano avuto accesso dal tempo dei Mamelucchi (1270 circa) per lunghi secoli: solo i musulmani potevano entrare, agli “infedeli” era proibito superare il settimo gradino della scala esterna che vi portava. Dopo la Guerra dei Sei Giorni l’accesso fu diviso da Moshé Dayan fra una sezione riservata ai musulmani e una per gli ebrei (e le persone di altra religione). Ma le tombe che si visitano sono vuote, servono solo da ricordo. I veri sepolcri si trovano sotto l’edificio nella grotta, che, come racconta anche la Torà, fu comprata da Abramo a un ittita che possedeva quel territorio, continuano a non essere accessibili né ai fedeli né agli studiosi. Ma qualche tentativo di infiltrazione nei sotterranei dell’edificio erodiano che nascondono le sepolture c’è stato: è una storia affascinante e romanzesca che è stata ricostruita in una tesi di dottorato recentemente discussa, che ha sollevato molto interesse nella stampa israeliana. (https://www.jns.org/secrets-of-the-cave-of-the-patriarchs-exposed/)
Noam Arnon, autore dello studio, racconta che il primo a tentare l’esplorazione in tempi moderni fu un italiano, uno strano ingegnere militare e archeologo dilettante di nome Ermete Pierotti che nel 1859 riuscì a infilarsi nella scaletta che portava ai sotterranei. Prima di essere bloccato e malmenato dalle guardie, Pierotti vide qualcosa della grotta anzi di due grotte separate da un muro, che contenevano “tombe di pietra bianca”. Prima di lui, le tombe erano state viste quasi solo da Rabbi Bana’ah, come racconta il Talmud, e anche dal grande viaggiatore ebreo medievale Beniamino di Tudela. Dopo di lui ci riuscì nel 1933 sotto la protezione delle truppe britanniche un ebreo di origini inglese, Jack Sklan, che si trovò di fronte a tombe monumentali di pietra come quelle vuote del piano elevato, ma prive dei drappi che le proteggono. Ci furono in seguito altri tentativi, condotti usando ragazzini che potevano infilarsi in uno stretto pozzo di areazione, da cui venne qualche informazione in più, per esempio che le tombe sono tre, due grezze e una con iscrizioni. Fu anche recuperato qualche pezzo di vasellame, datato dagli archeologi come materiali provenienti da varie località di Israele, anche lontane e risalenti al periodo del Primo Tempio, quando probabilmente le sepolture erano oggetto di pellegrinaggi di memoria.
Questo è ciò che si sa oggi della cava di Macpelah dove probabilmente le vere tombe dei Patriarchi sono ancora protette come le voleva Abramo 3500 anni fa e le racconta la Torà. Ma nel 2017 l’Unesco ha dichiarato l’edificio parte del “patrimonio culturale palestinese”, un popolo di cui nessuno aveva sentito parlare prima del 1960.