I lavori
sulla legge di riforma
Qualcosa è
cambiato nel clima politico di Israele. La Knesset (il parlamento monocamerale)
ha sospeso i lavori una decina di giorni fa per la festività di Pesach e li
riprenderà il 30 aprile, dopo le tre giornate che ricordano la Shoah e la
resistenza ebraica (lunedì prossimo), i caduti delle forze armate e le vittime
del terrorismo (il 25 aprile) e la nascita dello Stato di Israele (il 26),
quest’anno particolarmente solenne perché sono passati tre quarti di secolo.
Prima della sospensione, la maggioranza ha rinunciato ad approvare le prime due
leggi della riforma giudiziaria, cui mancavano ormai solo le votazioni finali
(in Israele l’approvazione di una legge richiede tre voti del plenum della
Knesset, gli ultimi due sono fatti normalmente nella stessa giornata). La
scelta è stata fatta dal primo ministro Netanyahu per lasciare spazio alle
trattative con la minoranza che si stanno svolgendo sotto la supervisione del
Presidente Herzog.
Altre mosse
distensive
Nei giorni
scorsi è stato anche annunciato che le votazioni sulla riforma non si
svolgeranno probabilmente durante il mese di maggio, per lasciare spazio alla
discussione del bilancio dello stato, che dev’essere approvato entro la fine
del mese. Anche questa scelta implica la volontà di lasciar spazio alle
trattative. Vi sono state altre significative mosse concilianti da parte di
Netanyahu. In primo luogo il Primo Ministro ha rinunciato alla richiesta di
dimissioni da parte del ministro della difesa Gallant, che era stata annunciata
dopo che egli aveva evitato di sanzionare gli ufficiali piloti della riserva
che per protesta avevano rifiutato il richiamo alle armi e inoltre era
intervenuto pubblicamente mentre il Primo Ministro era all’estero per
dissociarsi dalla linea del governo sulla riforma. In secondo luogo Netanyahu
ha deciso che la polizia non doveva intervenire contro gli agitatori islamici
che avevano occupato di notte la moschea di Al Aqsa sul Monte del Tempio per il
terso venerdì di Ramadan e, contro il parere del ministro della sicurezza Ben
Gvir aveva anche fermato le visite ebraiche sul Monte per gli ultimi dieci
giorni della festività islamica, come del resto era abitudine in passato. Sono
anche diminuite, non cessate del tutto ma animate ormai solo dai più
estremisti, le manifestazioni antigovernative. Vi sono state alcune
provocazioni da parte dell’opposizione, come quella del vicesindaco di Tel Aviv
che ha cercato di impedire una preghiera di Pesach nella centralissima Piazza
Dizenghoff, o quella di alcuni medici che hanno cercato di introdurre cibo
lievitato negli ospedali che non lo consentivano di Pesach, contro una legge
approvata dalla Knesset e l’uso costante dei decenni scorsi. Ma sono rimaste
isolate: non c’è dubbio che la tensione politica dentro Israele si sia
allentata. Come ha scritto qualcuno, le persone ragionevoli si sono rese conto
che lo Stato ebraico non può permettersi una guerra civile.
I pericoli
esterni
La ragione
di questa presa di coscienza è purtroppo un progressivo peggioramento dei
rischi esterni a Israele. Non si tratta solo del terrorismo palestinese, che ha
continuato anche durante l’ultima settimana a mietere vittime, come il giovane
avvocato italiano Alessandro Parini falciato da un terrorista sul lungomare di
Tel Aviv e le due sorelle israelo-britanniche Maia and Rina e la loro madre Lea
Lucy Dee uccise in un agguato vicino a Gerico, che hanno colpito moltissimo
l’opinione pubblica israeliana. Altri attacchi e altri arresti da parte della
polizia si sono succeduti nei giorni successivi. Ma il problema è un altro.
Sull’orizzonte strategico medio-orientale si sono resi evidenti due altri temi
di crisi, uno militare e uno politico-strategico, così importanti da
configurarsi come minacce all’esistenza stessa di Israele.
L’assedio
militare
Fra il 5 e
il 6 aprile, in seguito agli incidenti nella moschea di Al Aqsa, una
cinquantina di razzi sono stati sparati sul territorio israeliano: non una
quantità tale da non poter essere gestita dai sistemi di difesa di Iron Dome;
ma il punto è che questi missili sono stati lanciati contemporaneamente da
Gaza, dalla Siria e dal Libano. Un attacco missilistico concentrico da diverse
direzioni su Israele, unito magari a rivolte interne degli arabi israeliani e
al tentativo di invasione anche per mezzo di tunnel (di nuovo forse sia da Gaza
che dal Libano) è l’incubo delle forze armate israeliane. Senza dubbio Iron
Dome non basterebbe a fermare i lanci massicci di migliaia di razzi e droni da tre o quattro direzioni e
anche se le forze armate di Israele riuscissero dopo qualche tempo a respingere
l’attacco e distruggere i nemici, come si può essere sicuri, le vittime civili
e militari sarebbero molte. Quella della settimana scorsa è stata probabilmente
solo una prova tecnica. I giornali libanesi hanno riferito che Esmail Qaani,
comandante di un gruppo delle forze
rivoluzionarie dell’Iran (IRGC) ufficialmente dedicato a Gerusalemme (Qod
force) ha riunito a Beirut rappresentanti di Hamas, Hezbollah, Islamic Jihad,
degli Houthi dello Yemen e di altri gruppi per coordinare la loro azione contro
Israele; in seguito il capo di Hezbollah, Nasrallah, ha raccolto il compito del
coordinamento. È una minaccia molto seria, che pone a Israele problemi
strategici. La reazione molto moderata agli attacchi missilistici decisa dal
ministro della difesa indica che Israele non ha ancora pianificato come agire
in questi casi per ristabilire la sua capacità di dissuasione, senza accendere
una guerra non voluta. Bisogna aspettarsi che queste provocazioni continuino e
si rafforzino.
Il problema
diplomatico
Nel
frattempo si è mosso in maniera sfavorevole anche il fronte diplomatico.
L’accordo fra Iran e Arabia Saudita patrocinato dalla Cina ha favorito pure il
reingresso della Siria (protettorato iraniano) nel consesso degli stati arabi.
Anche in questo caso l’Arabia è stata la prima a ristabilire le relazioni
diplomatiche e sarà seguita da Baherin ed Emirati. Sempre l’Arabia ha
riconosciuto il governo filo-iraniano degli Houti in Yemen. Insomma rischia di
rinsaldarsi di nuovo un blocco anti-occidentale e anti-israeliano in tutta la
regione. Dietro a questi fatti vi è un rafforzamento del ruolo della Russia
(cui anche l’Egitto, a quanto è stato rivelato, ha promesso armi per la guerra
in Ucraina) e un’eclissi degli Usa, che difendono sì ancora militarmente le
loro posizioni in Iraq, ma mancano completamente di una politica mediorientale,
soprattutto perché nonostante lo schieramento filorusso dell’Iran si ostinano a
cercare un accordo con gli ayatollah. Insomma, quel che è a rischio è l’intero
quadro degli accordi di Abramo. E certamente la volontà di Biden di non rompere
con l’Iran minaccia direttamente la sicurezza di Israele che in caso di uno
scontro con gli ayatollah (voluto da loro o provocato dal chiaro rischio
dell’armamento nucleare) dovrà cercare di difendersi da solo, senza l’appoggio
americano, né naturalmente quello europeo. Sulla posizione dei Paesi sunniti in
questo caso non vi sono certezze. Sono pericoli gravi ed imminenti, di cui
tutte le persone ragionevoli nell’ambito della maggioranza e della minoranza
parlamentare israeliana si rendono conto e che richiedono la concordia
nazionale.