Che cosa ha determinato i risultati
Il risultato delle elezioni israeliane è ormai ben chiaro: la coalizione di centro-destra guidata da Bibi Netanyahu ha vinto 64 seggi su 120, il centro-sinistra di Lapid, Gantz, Liberman e i laburisti 46 seggi e i partiti arabi 10. È anche chiaro che il vantaggio del centro-destra in termini di voti è più limitato e ciò che ha fatto la differenza è stata soprattutto la capacità di fare coalizione: Netanyahu ha praticamente costretto a correre assieme Ben-Gvir e Smotrich, leader di due partiti dai rapporti non sempre facili, e ha aiutato a scongiurare una scissione del partito religioso askenazita, che si prospettava all’inizio della campagna. Lapid non è riuscito a riunire Meretz e laburisti, che avevano programmi radicali di sinistra molto simili, col risultato della sparizione di Meretz dalla Knesset e non ha scongiurato la scissione degli estremisti di Balad dalla Lista Unita araba, che, è vero, non apparteneva alla sua coalizione dello scorso governo, ma di cui aveva bisogno per ottenere la maggioranza nella prossima legislatura. Bisogna aggiungere a ciò il suicidio del partito Yamina di Bennett, che dopo le dimissioni da primo ministro non si è personalmente presentato alle elezioni, lasciando Ayalet Shaked a cercare di fronteggiare il fallimento del suo ex leader e le scissioni a destra e a sinistra che l’hanno lacerato, tentando di cambiare schieramento. Tutto ciò ha comportato una perdita per la coalizione sinistra-arabi, di alcuni seggi, che avrebbero potuto forse riportare in parità il risultato. Ma non si tratta solo di un fatto tecnico, o della mancanza di leadership della coalizione che molti hanno rimproverato a Lapid. Al contrario, si tratta di un dato politico: pur con diversi accenti la coalizione di centrodestra è unita su alcuni grandi valori, innanzitutto l’idea che Israele debba essere lo stato nazionale del popolo ebraico e che debba rispettare la sua tradizione religiosa. La coalizione opposta invece era unita solo dall’avversione personale verso Netanyahu.
Le regole per la costituzione del nuovo governo
La legge israeliana per la formazione del governo è un po’ tortuosa, ma chiara. Entro martedì (una settimana dalle elezioni), ma forse già oggi o domani al presidente Herzog verranno comunicati i risultati; egli avrà una settimana per consultare i partiti presenti alla Knesset perché gli indichino il nome di un possibile primo ministro. Alla fine darà l’incarico ha chi secondo lui ha maggiori probabilità di formare il nuovo governo (che sarà Netanyahu). Costui avrà da allora quattro settimane di tempo (prolungabili su sua richiesta motivata di altre due) per formare il governo, facendo gli opportuni accordi, compresi eventualmente quelli di alternanza nella posizione di primo ministro. Se non ci riuscisse il presidente nominerebbe un altro candidato con altre quattro settimane per le trattative di governo. E se anche lui fallisse vi sarebbero ancora due settimane in cui qualunque parlamentare potrebbe sottoporre le firme di almeno 60 colleghi (con lui sarebbero la maggioranza) che lo designano a formare il governo. Se questo non accade si va a nuove elezioni. Se invece si forma un governo, questo deve ottenere la fiducia della Knesset prima di entrare nel pieno dei propri poteri.
La trattativa
Questo percorso è stato seguito fino a diverse tappe nelle scorse quattro elezioni: due volte c’è stato un governo di alternanza e due volte si è andati diritti a nuove elezioni. Questa volta c’è una solida maggioranza dietro a Netanyahu e non dovrebbero esserci sorprese. Ma la formazione del governo nella politica israeliana è sempre un lavoro molto complesso, con pretese, ultimatum, compensazioni, confronti, che spesso risultano in formazioni molto ampie che soddisfano le richieste di riconoscimento dei politici, anche se talvolta non danno loro un grande potere reale. Inoltre vige una regola chiamata “legge norvegese” per cui i ministri in carica, finché svolgono il loro ruolo, vengono sostituiti alla Knesset dai primi fra i non eletti della stessa lista, ampliando il numero degli interessati. Insomma si prospetta una trattativa dura, che però Netanyahu, a quel che si dice, vorrebbe concludere molto rapidamente anche per evitare colpi di coda del precedente governo, possibilmente addirittura entro il 16 novembre, quando sarà convocata la seduta inaugurale della nuova Knesset.
Le richieste dei partiti
Si sa che Ben-Gvir ha chiesto il ministero della sicurezza pubblica (quello che in Israele controlla le forze dell’ordine, che non dipendono dal Ministero dell’Interno) e Smotrich ambisce al Ministero della Difesa. I partiti religiosi di solito puntano ai ministeri di spesa da cui possono aiutare le comunità che li esprimono, cioè i ministeri che regolano i sussidi, le abitazioni, la scuola). Vi sono altri posti pesanti da attribuire come gli Esteri, su cui però tradizionalmente l’influenza di Netanyahu è dominante), la Giustizia, l’Economia. su cui si concentrano le ambizioni dei membri più influenti del Likud. Si sa che le trattative sono già iniziate, ma esse si svolgono naturalmente in maniera riservata. La formazione del governo è resa più complicata dal fatto che in Israele e anche negli Usa vi sono forti pressioni perché Netanyahu non assegni ministeri chiave ai sionisti religiosi, in quanto “estremisti”. Vi è anche chi lavora perché al nuovo ministero sia associato Gantz, che avrebbe a sua volta delle richieste pesanti per rimangiarsi le sue promesse di non andare mai con Netanyahu e per dimenticare la pessima esperienza del governo di coabitazione di due anni fa. E c’è anche chi vorrebbe che Bibi scaricasse del tutto dalla maggioranza Ben Gvir e Smotrich per sostituirli con Ganz e il suo partito. È difficile dire quanto queste pressioni andranno a effetto. Abilissimo politico, Bibi sa di non dover deludere il suo elettorato, ma preferisce non sbilanciarsi troppo e avere sempre delle alternative. Solo fra qualche giorno o settimana conosceremo le sue scelte.