La “vendetta” annunciata
Un momento di sospensione, di attesa, di incertezza. Sono passati quattro giorni dall’eliminazione a Teheran di Ismail Haniyeh, leader di Hamas e a Beirut del capo di stato maggiore di Hezbollah Fuad Shukr, oltre che della conferma dell’uccisione, avvenuta venti giorni fa, di Mohammed Deif, capo militare di Hamas a Gaza, e ormai quasi due settimane dal bombardamento del porto di Hodeidah, il principale centro di rifornimento dei ribelli yemeniti Houti: tutte azioni israeliane per cui i gruppi terroristici e il loro grande protettore, l’Iran, hanno proclamato di voler far vendetta. Ancora, al momento in cui scrivo questo articolo, alla fine del sabato, questa vendetta non si è vista. Ma è chiaro che essa ci sarà, o meglio che ci sarà il tentativo di compierla; in caso contrario i vari movimenti terroristi e l’Iran che li controlla perderebbero la faccia, il che in Medio Oriente è una sconfitta molto grave. L’attacco probabilmente sarà coordinato dall’Iran con la partecipazione di tutti questi gruppi, potrà avvenire anche fra un certo tempo, com’è accaduto per l’assalto missilistico e di droni compiuto dall’Iran ad aprile come vendetta per l’uccisione a Damasco del suo generale responsabile del coordinamento dell’attività dei gruppi terroristici contro Israele, Mohammad Reza Zahedi. Il colpo dell’Iran venne due settimane dopo l’esecuzione del generale e fu un clamoroso fallimento: con oltre duecento fra razzi balistici, droni, missili da crociera lanciati da Iran e Yemen, il solo risultato fu il ferimento di una innocente bambina di una famiglia beduina nel Negev.
Come potrebbe essere l’attacco
Possiamo dunque dare per scontato che un tentativo di assalto a Israele ci sarà, che sarà multilaterale e probabilmente più pesante di quello certo non leggero di tre mesi fa, che avverrà entro un paio di settimane (ma forse già stanotte, ma fonti americane parlano del 9 di Av, data in cui la tradizione ebraica porta il lutto per la distruzione di entrambi i Templi e per una serie di altre sciagure), che quest’anno inizia la sera del 12 agosto. Sappiamo che esso sarà contrastato, oltre che dai tre strati della difesa antimissile di Israele, la migliore del mondo; anche dalla collaborazione inglese, americana e di alcuni stati arabi, probabilmente Giordania, Arabia Saudita, ed Emirati. Sappiamo anche che l’attacco più temibile, perché avverrà da vicino e dunque con poco preavviso, potrà essere massiccio e portato con armi di precisione, potrebbe venire da Hezbollah. L’Iran potrebbe invece tirare missili potenti balistici di precisione, compreso un nuovo proiettile ipersonico (cioè capace di muoversi ad altissima velocità manovrando e abbassandosi per eludere le difese antimissile).
I dubbi strategici
Qui iniziano i dubbi, non solo per noi che siamo testimoni, ma anche per chi dirige i terroristi, cioè in sostanza l’Iran. Conviene all’Iran usare l’arsenale di Hezbollah, certamente notevole, per perforare la difesa aerea israeliana e colpire la popolazione civile israeliana, al costo quasi certo, perché pubblicamente annunciato da Netanyahu, di una guerra totale per la distruzione del gruppo terrorista che ridurrebbe parti notevoli del Libano allo stato di Gaza? E vale la pena, sempre dal punto di vista degli ayatollah, di un intervento massiccio dell’Iran che gli costerebbe probabilmente parti notevoli del suo apparato nucleare, raggiungibile dall’aviazione israeliana come ha mostrato il bombardamento di Hodeidah, a 2000 km dal territorio israeliano? In sostanza, il problema è se l’Iran ha interesse ad aprire una guerra regionale in cui, al di là della cattiva volontà dell’amministrazione Biden, gli Usa sarebbero sicuramente coinvolti. Se provassero a danneggiare pesantemente Israele e non ci riuscissero, gli ayatollah mostrerebbero la loro incapacità di sostenere le loro ambizioni imperialiste; se ci riuscissero, ma Israele fosse in grado di replicare con forza, si aprirebbe un’avventura imprevedibile, con conseguenze politiche serie non solo per il Libano, ma anche per l’Iran, che ha un’economia in dissesto e una popolazione sempre sull’orlo della rivolta. Se non ci provassero e facessero solo un attacco di facciata, conserverebbero le loro armi per il momento, ma vedrebbero intaccato il loro prestigio nella regione. Sarebbe così fallito tutto il tentativo di ferire a morte Israele iniziato il 7 ottobre scorso, il che probabilmente porterebbe ad effetti importanti e positivi sulla questione degli ostaggi.
Israele ha conquistato l’iniziativa strategica
Certo, ci sono molte cose che possono andare male e i danni a Israele possono essere gravi. Ma la ripresa di iniziativa militare (anche, ma non solo, con le eliminazioni mirate), il rifiuto di condurre le trattative per gli ostaggi fino alla resa desiderata dall’amministrazione Biden (e purtroppo anche da alcune forze dentro Israele), insomma la linea della “vittoria” che Netanyahu ha mantenuto in questi mesi e che ha esposto di recente al Congresso americano, hanno portato Israele per la prima volta in una posizione strategica attiva dopo un lungo periodo di (necessaria) autolimitazione e autodifesa. Che un’Israele che vince non piaccia a molti in America e nel mondo, non solo ai nemici espliciti ma anche a quelli che predicano di “non esagerare” e di “badare innanzitutto ai diritti umani dei palestinesi”, è chiaro. Ma oggi è ancora più chiaro che quel che si combatte non è la guerra di Israele contro Gaza (che molti qualificano come crudele ed ingiusta e addirittura più di qualcuno ha il coraggio di descrivere come un “genocidio”), ma l’assalto coordinato di un grande stato come l’Iran e di una mezza dozzina di potenti movimenti terroristici contro Israele, con scopi, questi sì, genocidi. E quel che finalmente si vede è che Israele, grazie a una coraggiosa direzione politica, all’eroismo dei suoi soldati, alla sua superiorità tecnologica, può avviarsi a vincere davvero, eliminando non solo i dirigenti e i terroristi di Hamas, ma esponendo la debolezza intrinseca di chi li sostiene, innanzitutto l’Iran.