Succede tutti gli anni. Al di là del suo significato religioso, il Ramadan, “mese sacro” per i musulmani, è il momento in cui si concentra il terrorismo islamista e in Israele sono più numerosi attentati, scontri, manifestazioni arabe violente. Quest’anno gli scontri sono stati particolarmente intensi e numerosi, anche se con un bilancio delle vittime abbastanza limitato. Gli scontri più massicci sono avvenuti venerdì e sabato sera sul Monte del Tempio, dov’erano concentrate alcune decine di migliaia di fedeli islamici. Al termine delle preghiere molti hanno attaccato la polizia con fuochi d’artificio e pietre che erano state accumulate nella moschea di Al Aqsa. Le forze dell’ordine hanno reagito con mezzi antisommossa non letali, come gas lacrimogeni e granate acustiche. Vi sono stati molti arresti e centinaia di feriti e contusi. Altri scontri sono avvenuti nella città vecchia, a Hebron, nei quartieri arabi intorno a Gerusalemme. Nei giorni precedenti vi era stato anche un attacco con armi da fuoco da un’automobile contro studenti ebrei a una fermata dell’autobus (uno purtroppo è morto e un altro è grave, l’attentatore è stato catturato, l’attentato è rivendicato da Al Fatah, come non accadeva da anni). Vi è stato anche il tentativo di un attacco, sempre con armi da fuoco, a un posto di polizia: due degli assalitori sono rimasti sul terreno. Non sono mancati i soliti razzi da Gaza e anche di nuovo la diffusione di palloni incendiari. Infine l’aspetto più “innovativo” di questa ondata di microterrorismo è stata la “moda” per gruppi di giovani arabi di andare a caccia di ebrei isolati (di solito charedim) per picchiarli e riprendere l’”impresa” coi cellulari e pubblicarla sui social.
Bisogna chiedersi il perché di questa intensificazione degli scontri e del microterrorismo. Una prima ragione è che quest’anno la fine del Ramadan coincide con Yom Yerushalaim, l’anniversario della liberazione di Gerusalemme, che i palestinisti non solo lamentano come un lutto, ma rifiutano di riconoscere e vogliono rovesciare. Le manifestazione violente sul Monte del Tempio hanno il senso di ribadire una rivendicazione che è stata avanzata ancora nei giorni scorsi da Giordania e Autorità Palestinese: quel luogo, che è il più santo per gli ebrei ed è sacro anche ai cristiani, per loro dev’essere solo dei musulmani, nessun altro deve metterci piede, non diciamo pregarci.
Sul piano più profano c’è un’altra coincidenza. In questi giorni sta arrivando alla conclusione la causa relativa a una casa del quartiere di Shimon Hazaddik (in arabo chiamata Sheikh Jarrah) a nordest della città vecchia. E’ un edificio costruito ben prima dello Stato di Israele da ebrei su terreno da loro regolarmente acquistato. I proprietari furono espulsi nella pulizia etnica successiva alla guerra di indipendenza nel ‘48, e la casa fu occupata da arabi. Di fronte alla richiesta di restituzione, gli occupanti prima dissero di essere loro i proprietari, poi si atteggiarono a inquilini, senza peraltro mai pagare l’affitto. Dopo una lunga guerriglia legale, la Corte Suprema sta decidendo lo sfratto, ma questo normale provvedimento giudiziario è stato presentato, in Medio Oriente ma anche negli Usa, come violenta “giudeizzazione” di “Gerusalemme Est” e ha suscitato proteste politiche ma anche di piazza. E’ una logica molto islamista: quel che occupiamo con la forza diventa nostro e se il proprietario vuole riprendersi ciò che è suo è un nemico dell’Islam.
Vi sono poi ragioni politiche generali. Mohamed Abbas ha appena annullato le elezioni dell’Autorità Palestinese, frustrando la speranza di Hamas di prendere il potere per questa via: un nuovo ciclo di violenza serve a mettere in luce le esitazioni e l’impotenza del vecchio dittatore. Sul Monte del Tempio erano numerose le bandiere di Hamas. E soprattutto a Washington si è insediata l’amministrazione Biden, il cui atteggiamento antisraeliano è chiaro. Gli scontri servono a chiamare gli Usa a condannare Israele fino a metterne in dubbio la legittimità, cosa che molti democratici assai ascoltati alla Casa Bianca appoggiano: Sanders, Warren, Ocasio Cortez.
Questo quadro internazionale spiega anche le condanne – in realtà piuttosto formali – provenienti da paesi arabi che ci eravamo abituati a considerare schierati con Israele, dall’Egitto all’Arabia agli Emirati Arabi. In realtà sulle rivendicazioni islamiche di Gerusalemme e la “Palestina” questi stati avevano sempre mantenuto la loro vecchia posizione di principio. Ma fin che alla Casa Bianca c’era Trump, prevalevano gli Accordi di Abramo. Ora con Biden al comando, essi si chiedono se allinearsi e cercare un compromesso con l’Iran o restare con Israele e resistere. Scontri e terrorismo servono anche a cercare di riportarli nel fronte antisraeliano. Insomma quel che sta succedendo in questi giorni a Gerusalemme e intorno ad essa non è tanto grave in sé quando come sintomo di una posizione internazionale che sta evolvendo in maniera negativa per Israele, anche in coincidenza con una crisi politica interna tutt’altro che risolta.