Legami incrollabili
Quale sia la posizione fondamentale
degli Stati Uniti su Israele l’hanno ripetuto nei giorni scorsi sia Biden che
Herzog, usando una formula ormai stabilita: “unshakeable bond,” o “unbreakable
bond”, un legame che non si può rompere e nemmeno scuotere. La ragione sta non
solo nel gran numero di israeliani che sono immigrati dagli Usa conservando la
doppia cittadinanza e nella grande, anche se non certo univoca, influenza
politica della comunità ebraica americana. C’è la grande gratitudine di Israele
per la protezione americana e la sicurezza americana di poter sempre contare
sull’appoggio del suo “più fedele alleato”, ma soprattutto il fatto che gli
Stati Uniti e Israele condividono tradizionalmente valori, modelli, stili di
vita, senso religioso dell’esistenza. Ma i “legami incrollabili” sono una cosa
e la politica un’altra, come si è visto tante volte nei rapporti fra i due
stati e accade anche oggi.
Qual è la politica di Biden nei
confronti di Israele?
Il problema oggi è che non si capisce
bene quale sia questa politica. Per semplicità si tende a parlare della
politica di Biden, ma in realtà la presidenza americana deve affrontare una
massa tale di problemi che non può che lavorare in squadra, che sarebbe
l’aspetto decisivo anche con un presidente più giovane e attivo di Biden. Si
tratta dunque della politica formulata da un gruppetto di consiglieri
responsabili per il Medio Oriente: i principali sono Samantha Powers, Maher
Bitar, Hady Amr e Robert Malley (ora sospeso per una vicenda di carte segrete
usate in maniera troppo personale), cui va aggiunto anche l’ambasciatore, anche
lui uscente Tom Nides. È un gruppo di persone formate per lo più ai tempi di
Obama, fortemente contrari al governo israeliano in carica, ma soprattutto
altrettanto fortemente impegnate a favorire un avvicinamento fra Usa e Iran –
un progetto che oggi sembra incredibile vista l’alleanza fra Iran e Russia, ma
che riemerge periodicamente ed è il maggior pericolo strategico per Israele,
come pensa non solo Netanyahu ma anche buona parte dell’opposizione.
Naturalmente ci sono le spinte del Congresso, quelle pro-Israele come la
mozione della Camera dei rappresentanti che ha approvato due giorni fa per 412
voti a 9 fa una risoluzione la quale nega che si possa parlare di Israele come
uno stato razzista e di apartheid; ma anche quella della “squadra” democratica
che invece la pensa proprio così, composta da Alexandria Ocasio-Cortez, Ilhan
Omar, Jamaal Bowman, Rashida Tlaib, Cori Bush e alcuni altri estremisti di
sinistra antisionisti che ha molto più potere del loro numero, perché essi sono
visti come i “giovani” del Partito Democratico e dunque la matrice del suo
rinnovamento.
Il boicottaggio di Netanyahu e
l’invito inaspettato
Per questa diffidenza nei primi sette
mesi del nuovo governo Netanyahu non è stato invitato, com’è normale, a un
incontro con Biden. E molti hanno visto nell’invito a Herzog un modo ulteriore
di squalificare chi detiene il potere reale in Israele, cioè il primo ministro,
in favore di un presidente che ha poteri solo morali. Ciò poteva sembrare
evidente fino a un paio di giorni fa e pareva chiarissimo dall’intervista che
Biden ha dato di recente alla CNN, dove ha definito il governo attuale di
Israele “il più estremista di sempre”. Poi però è venuta, assolutamente non prevista,
la telefonata di lunedì di Biden a Netanyahu, la prima da oltre quattro mesi,
proprio alla vigilia dell’incontro con Herzog. E soprattutto si è fatto sapere
che Biden e Netanyahu avevano stabilito di vedersi entro l’anno, non si capisce
se con un incontro rituale alla Casa Bianca o in occasione dell’Assemblea
Generale dell’Onu a settembre. Una dichiarazione di pace, un tentativo di
ritrovare i rapporti, visto che la speranza di abbattere rapidamente Netanyahu
si è infranta di fronte alla resistenza e all’abilità politica del leader
israeliano? Forse. C’è stato anche qualche politico americano che ha negato
fosse un invito vero e proprio.
Friedman
E però, appena qualche giorno prima
della telefonata, c’era stato un articolo del capofila dei nemici di Netanyahu
nel giornalismo americano, quel Thomas Friedman che nei mesi scorsi era
arrivato al punto di dire che il problema non era tanto il primo ministro, ma
proprio l’esistenza di Israele, schierandosi così apertamente dalla parte degli
antisionisti. Friedman ha scritto un articolo sul “New York Times” contro
Netanyahu e le sue politiche, dicendo in sostanza di “non avere dubbi che il
Presidente degli Stati Uniti trasmetterà un messaggio al Presidente di Israele,
per tristezza e non per rabbia, spiegando che quando gli interessi e i valori
del governo degli Stati Uniti e del governo di Israele divergono così tanto una
rivalutazione della relazione è inevitabile” e che dunque essa non è per nulla
“incrollabile”. Il pezzo era scritto in maniera tale da suggerire che esso
fosse stato “ispirato”. Molti dirigenti israeliani hanno smentito che quella
fosse l’autentica posizione americana, ma Biden il giorno dopo aver parlato con
Herzog, ha ricevuto Friedman alla Casa Bianca per far sì che “le sue parole
fossero chiarissime agli israeliani”, secondo quanto ha scritto il giornalista.
E il messaggio è di “fermare la riforma della giustizia” a meno che le arrivi
il consenso di chi protesta contro di essa e naturalmente anche di smettere di
costruire case in Giudea e Samaria e di non combattere troppo duramente i
terroristi, ma di cercare di nuovo un accordo con l’Autorità Palestinese, che
non lo vuole, cioè di fare la politica della sinistra e magari così di fare
saltare il governo: il suicidio di Natanyahu. Con una conclusione che sa di
ricatto: “In fondo sta chiedendo questo a Netanyahu e ai suoi sostenitori:
se non vi accorgete che condividiamo questo valore democratico, sarà difficile
sostenere per altri 75 anni la relazione speciale di cui Israele e l’America
hanno goduto negli ultimi 75 anni […] Messaggio agli israeliani di destra,
sinistra e centro. Joe Biden potrebbe essere l’ultimo presidente democratico
pro-Israele. Se ignorate le sue oneste preoccupazioni, questo è il vostro
rischio”.
Netanyahu non reagisce
Anche in questo caso ci sono state
sia smentite che conferme alla corrispondenza delle affermazioni di Friedman
con il pensiero di Biden. È chiaro che il disordine nella Casa Bianca è grande,
almeno riguardo a Israele, e che la lotta fra amici e avversari di Israele
nella politica americana non si risolverà presto. Come risponderà Netanyahu?
Molto probabilmente starà zitto, come ha fatto nel passato recente e anche
ieri, quando ha solo molto lodato il discorso di Herzog per il forte
avvertimento sui rischi dell’Iran.