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    Alla ricerca delle gocce dell’oceano

    “Ori è ovviamente un mondo intero, ma sappiamo anche che è una goccia nell’oceano”. L’ha detto il capo di stato maggiore Herzi Halevi a proposito della liberazione del soldato semplice Ori Megidish, la settimana scorsa, in una drammatica operazione notturna, frutto di decisioni complesse e molti rischi ma con un lieto fine. In questo “oceano”, le “gocce” sono almeno 242. Sono gli ostaggi, civili e soldati, bambini, donne, anziani, feriti e malati gravi, ancora in mano a Hamas a Gaza. La liberazione di Ori “ha davvero sollevato la mia speranza” ha detto, al telefono con Shalom, Nikol Beizer, la sorella 15enne del soldato rapito Nik Beizer (19). Nik è stato catturato il 7 ottobre nella base del COGAT al valico di Erez, da dove coordinava, in accordo con l’Autorità Palestinese, il transito dei convogli commerciali destinati alla Striscia. Sua madre Ekaterina, dopo la notizia del salvataggio della soldata Ori, è invece divisa tra due sentimenti. “Prima di tutto sono molto felice per la famiglia Megidish che ha potuto riabbracciare la ragazza, figlia e sorella”. Ma? “Hamas ha capito che il nostro esercito è in grado di raggiungere e liberare i soldati. Ho paura che li possano nascondere in altri luoghi, più impenetrabili. E che sarà più difficile trovarli”. I Beizer, arrivati nel 2000 dall’Ucraina, vivono a Beer Sheva, la capitale del deserto del Negev. Nella città universitaria scelta dal governo per diventare il nuovo hub delle unità di intelligence e di IT dell’esercito, ci sono altre tre famiglie i cui ragazzi sono stati catturati e portati da Hamas a Gaza. È dura farsi notare nella torrida periferia del paese, quando la Kirya e la sede nazionale del forum delle famiglie degli ostaggi e dei dispersi sono a Tel Aviv. Ed è dura ancor di più per le famiglie dei soldati. “Nelle news – spiega la giovane Nikol – si pone molto l’accento sull’emergenza di liberare i civili, i bambini, gli anziani, le donne, i malati. È come se l’urgenza, per i soldati, fosse meno impellente. È molto dura accettarlo”.

    Suo fratello, racconta la ragazza, era di stanza nella base di Erez per sei giorni alla settimana e solo una volta al mese trascorreva lì il weekend. Il 7 ottobre non sarebbe dovuto essere il suo turno. Ma un amico gli aveva proposto uno scambio a buon rendere e lui aveva esaudito la richiesta del commilitone. La sera prima dell’efferato attacco di Hamas, Ekaterina con suo marito Sergey e con Marta, la fidanzata di Nik, gli hanno fatto visita, portandogli i piatti cucinati per lui per la cena di Shabbat.

    All’alba del sabato, Ekaterina si è svegliata al ripetuto suono delle notifiche sul cellulare per i razzi che piovevano su tutto il sud e il centro di Israele. E pure sulla base di suo figlio. Alle 6.30 Nik ha risposto da dentro il rifugio, tranquillizzando la madre. In sottofondo si sentivano le sirene e le esplosioni dei missili intercettati dall’Iron Dome. Mezz’ora dopo il ragazzo ha nuovamente risposto al telefono, e di nuovo ha tranquillizzato i suoi. Questa volta, però, Ekaterina sentiva le voci di altri soldati urlare che alcuni terroristi si erano infiltrati nella base. Da allora ogni contatto con Nik si è perso. Fino a quando, ore dopo, un amico d’infanzia del 19enne ha chiamato la famiglia per segnalare di aver riconosciuto Nik in un video postato sul canale Telegram di Hamas, insieme con altri ostaggi, già dentro Gaza. “In quel filmato stava bene. Non sembrava ferito. Speriamo che ce lo restituiscano così”, dice la sorella. Insieme con lui c’erano anche altri due soldati, Tamir Nimrodi e Ron Sherman. “Siamo in contatto con le loro famiglie – racconta mamma Ekaterina -. A volte ci incontriamo, parliamo, cerchiamo di esserci gli uni per gli altri.”

    Insieme, le famiglie stanno facendo di tutto per mobilitare l’opinione pubblica globale e attirare l’attenzione sul dramma dei 240 ostaggi. “È importante che le persone sappiano con chi abbiamo a che fare. Questa non è una guerra tra paesi, ma piuttosto una guerra tra Israele e un’organizzazione terroristica che ha oltrepassato tutti i confini della civiltà. Eradicare Hamas è importante, ma se non riportiamo indietro i prigionieri, non potremo dire di aver vinto davvero.”

    L’unico incontro, tra quelli istituzionali, da cui la madre di Nik è tornata a casa rincuorata è stato con il presidente israeliano Isaac Herzog. “Ha ascoltato tutti – ricorda – e ha lasciato a ciascuno l’opportunità di parlare e condividere la propria storia”.

    Al telefono, oltre a rispondere per sé, Nikol aiuta la madre traducendo per lei dall’ebraico all’inglese. “Ho trovato la mia strada per restare forte, ottimista ed essere di aiuto alla mia famiglia. L’importante – confessa – è che non mi chiedi di raccontare come mi sento. Allora crollerei”.

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