Si entra in “6:29”, la mostra commemorativa per la “tribù” del Nova Festival massacrata da Hamas il 7 ottobre, come la sognatrice per antonomasia, Alice, quando fa il suo ingresso nel Paese delle Meraviglie. Ma il mondo in cui si precipita funziona all’opposto di quello del romanzo di Lewis Carrol. E rivela un ventaglio molto più ampio di significati che vanno dalla tragedia alla speranza, dalla morte alla rinascita.
Si entra, in “6:29”, l’ora in cui il 7 ottobre Hamas ha iniziato a lanciare razzi su Israele, varcando l’ingresso del padiglione 1 all’Expo di Tel Aviv, dove è allestita. Il bar, la biglietteria, le tende colorate, i pannelli informativi, il merchandising creano subito straniamento. Si respira un’atmosfera colorata da festival ma con una cupa premonizione. Si pagano 50 shekel per il biglietto d’ingresso, sapendo di fare una donazione alla “tribù”, per la riparazione del trauma e per progetti futuri. Poi un custode, sulla soglia della mostra vera e propria, ti mette il timbro del Nova sulla mano e ti spinge oltre la porta. È in quel momento che un mondo di cui sai già tutto, perché ne hai sentito parlare e ne hai letto, comincia a diventare reale e terribile, anche se nel passato.
Si cammina in “6:29” avvolti da luci viola e blu. Si seguono con lo sguardo i fasci luminosi dei fari puntati sui dettagli. Le tende da campeggio, i rami sparsi, gli oggetti più banali abbandonati – un ventaglio, una sedia da giardino, un telo, un tappetino da yoga, un cappello da baseball, una borsa frigo – raccontano di una comunità di persone prese alla sprovvista mentre, all’alba, consumavano il loro divertimento tra musica trance e meditazione.
Tutto è originale in questo mondo ricostruito in un altro luogo. Anche i palchi dei concerti, i servizi igienici con le porte crivellate di proiettili, le auto carbonizzate, la consolle del dj e il service audio dell’ingegnere del suono, Matan Lior, una delle 400 vittime dell’attacco mortale di Hamas.
“We will dance again”, torneremo a danzare, assicurano gli organizzatori del Nova che hanno già ricominciato a guardare al futuro. Così racconta Ofir Amir, una delle menti del Festival e uno dei sopravvissuti. I terroristi di Hamas gli hanno sparato alle gambe mentre era in fuga con altri sei amici a bordo di un’auto. “Abbiamo aperto un centro di riabilitazione a Cesarea che è una casa per i superstiti come me, per le nostre famiglie e per quelle delle persone uccise. Un luogo dove possiamo ritrovarci, elaborare insieme il trauma, ricevere il supporto psicologico dei terapisti”. E poi c’è la mostra “6:29”. Musica trance e litanie per meditare accompagnano l’esplorazione dell’installazione e memoriale. Una delle sezioni si chiama “Angolo della perdita e della realtà” e presenta abiti, borse, occhiali da sole, chiavi di casa, prodotti cosmetici, libri e scarpe. “Esponiamo gli oggetti appartenuti e persi, abbandonati nella fuga dalle persone che erano al festival. Si pensa subito alla Shoah, vero?”, chiede Amir e spiega: “Sì, perché è proprio questa la sensazione di ciò che abbiamo passato. E i nostri oggetti sono al tempo stesso le prove che smentiscono chi vorrebbe negare i fatti”.
Attorno al palco principale, intanto, le anime belle del Nova che non ci sono più, sono già tornate a ballare. Su maxi schermi, tra campi lunghi e primi piani, una comunità di giovani spensierati danza e si diverte nel passato remoto delle ultime ore della vita prima della tragedia che vive in un passato successivo. Il passaggio tra i due, il momento vissuto dalla tribù sotto attacco, lo raccontano gli screenshot delle chat su whatsapp. Messaggi di paura e di amore. E addii mandati da chi, senza capire la portata di quanto stava accadendo, si rivolgeva ai propri cari, altrettanto ignari.“La nostra comunità ha perso molti amici, 400 favolose persone che sono state uccise, brutalmente assassinate, dai terroristi di Hamas. Oltre 30 di loro sono ancora ostaggi a Gaza. Ma questa mostra – insiste Amir, che quattro settimane dopo il Sabato Nero è diventato padre della prima figlia, Eliana – non racconta solo una storia tragica. Ritrae una tribù che incarna la speranza, la resilienza e l’unità di fronte all’oscurità”.