Dopo cento giorni di prigionia portare a casa gli ostaggi è cento volte più urgente. In tre mesi non è calata mai un momento la tensione né è diminuito l’impegno degli israeliani per chiedere instancabilmente “BringThem Home Now”, riportateli tutti a casa adesso. Caso mai il movimento dei nastri gialli – il colore della solidarietà per i connazionali rapiti fin dal caso, risolto dopo cinque anni, del soldato GiladShalit – si è decentrato, si è espanso e oggi sente il bisogno di avvicinarsi sempre di più a Gaza, dove sono tenuti in cattività ancora 136 persone. Dal centro della piazza degli Ostaggi, tra il museo TAMA e la Kiryia a Tel Aviv, fino all’“OtefAza”, la cintura di terreni e kibbutzim e moshavim più vicini alla Striscia, ovunque si marcia, si sciopera, si protesta e si grida, nei megafoni o a viva voce, con la determinazione della speranza, della rabbia, della paura.
Come far capire all’opinione pubblica cosa significa essere prigionieri in un tunnel sotterraneo, al buio, senza aria fresca né cibo, la propria vita nelle mani di un nemico che ha dimostrato di poter agire in modo disumano? Ci ha provato il Forum delle Famiglie degli Ostaggi con la replica di un tunnel di Hamas lungo 30 metri.
I primi a entrarvi, sabato mattina, sono stati i parenti degli israeliani sequestrati il 7 ottobre e portati a Gaza. “La sensazione è davvero brutta nonostante l’esperienza non sia nemmeno lontanamente paragonabile a quella che sta attraversando mio padre Oded, a 83 anni”, ha detto OmerLifshitz uscendo dall’installazione con il figlio Adam. “Non riesco a respirare. Sono stata lì dentro per 5 minuti e volevo solo scappare. Ma io avevo la scelta di scappare. Loro non ce l’hanno”, ha confermato Ela, figlia del 57enne Ohad Ben Ami, che ha aggiunto: “Sono ormai cento giorni che sono rinchiusi nell’oscurità di questo posto terribile. Il pensiero mi distrugge”.
Accanto ai parenti di chi è stato sequestrato c’è un robusto cordone di solidarietà.
Anche chi non ha un legame diretto con gli ostaggi o le loro famiglie, sente di averlo. “Non conosco personalmente nessuno dei rapiti ma sento un legame con ciascuno di loro. Come tutti, perché siamo tutti nella stessa situazione. Sono le mie sorelle, i miei fratelli, è la mia gente, il mio popolo. E sento che dovrebbe essere così per tutte le persone nel mondo”, ha spiegato l’attrice Rona-Lee Shimon che in Fauda interpreta Nurit, la protagonista femminile dell’unità mista arav (sotto copertura) dell’esercito israeliano. Venerdì mattina è andata a Urim, nel sud di Israele, a pochi chilometri dalla barriera di separazione con la Striscia. Con altre rappresentanti del mondo dello showbiz israeliano si è unita alla marcia di solidarietà alla campagna #MeToo_Unless_Ur_A_Jew, avviata dall’imprenditrice espatriata negli Stati Uniti Danielle Ofek. Il tema delle donne in cattività è tra i più urgenti, soprattutto dopo che Hamas, infrangendo gli accordi del primo cessate il fuoco a fine novembre, si è rifiutato di liberare tante ragazze. Oggi il timore, oltre a quello per le loro condizioni di salute fisica e mentale, è che queste giovani donne in età fertile, vittime di abusi sessuali testimoniati dagli ostaggi rilasciati durante quell’unica tregua, possano trovarsi ad affrontare gravidanze indesiderate. Così il termine dei cento giorni assume anche un significato biologico, alla luce della possibilità di affrontare un aborto. Eppure, lamentano le donne israeliane, sembra che per la comunità internazionale, per i movimenti #MeeToo e per le agenzie Onu, le prigioniere ebree non abbiano diritto alla solidarietà. “Le nostre azioni – spiega Ofek da Washington – servono come un urgente appello all’azione. Chiediamo a UN Women di unirsi a noi in questa lotta, di agire con decisione e di contribuire a correggere le ingiustizie che sono state perpetrate. E riteniamo che tutti gli attori, in particolare coloro che continuano a finanziare UN Women poiché credono, come noi, che la difesa dei diritti delle donne sia fondamentale, debbano farsi avanti e pretendere responsabilità”. Di fronte all’ingiustizia e dopo cento giorni – hanno urlato artiste, sceneggiatrici e produttrici – il silenzio non è un’opzione accettabile. L’attrice Tali Sharon è incredula: “Cento giorni. Non pensavamo che ci sarebbe voluto così tanto tempo. Pensavamo che li avrebbero rilasciati dopo qualche giorno, dopo qualche settimana”. Dal 7 ottobre non riesce più a lavorare. “Sento di non avere il privilegio di intrattenere il pubblico. Ora siamo in modalità di sopravvivenza. Non voglio vivere normalmente. Non voglio fare spettacolo. Voglio solo combattere”. È andata a Urim “per gridare per le nostre sorelle che in questo momento non possono parlare. Vengono violentate ogni giorno. Non conosciamo le loro condizioni. Non sappiamo se sono vive. E il mondo tace”. Hadas e Tal sono le zie di Naama Levi, 19 anni. “Cerchiamo di avere pensieri positivi. Sebbene stia passando l’inferno, proviamo a credere che non abbia subito altri abusi. Solo questo ci aiuta a sopravvivere”. Anche loro, dopo cento giorni, sentono il bisogno di urlare. “Di solito siamo una famiglia molto tranquilla e riservata. Anche Naama lo è. Sì, ma ora, per favore, urlate con noi”.