Sul tema della siccità e della crisi climatica abbiamo intervistato il Rabbino Capo di Roma Riccardo Di Segni.
Dove appare per la prima volta la “piaga” della siccità nella Torah?
Appena Abramo arrivò nella terra promessa si trovò di fronte a una carestia (ra’av, letteralmente “fame”) che lo costrinse a scendere in Egitto. In Egitto la situazione era differente, l’approvvigionamento idrico non dipendeva dalla pioggia ma dal Nilo. Ma anche in Egitto c’erano cicli di crisi e la storia di Yosef lo dimostra. La sua folgorante carriera da schiavo in prigione a viceré dipese dalla sua previsione della crisi alimentare e il suo piano per superarla.
Il tema della siccità è centrale nei libri sacri ebraici e ce lo portiamo appresso dalle nostre origini alla vita quotidiana. Basti pensare che nella preghiera dello Shemà, che leggiamo due volte al giorno, il segno della benedizione divina è nella promessa: “darò la pioggia della vostra terra a suo tempo, nelle sue varianti stagionali (yorè umalqoòsh).” Nella amidà, che leggiamo tre volte al giorno nei giorni feriali, si prega per la pioggia con una precisa scansione temporale. Non credo che esista nel mondo occidentale una cultura come la nostra dove questa problematica sia così sentita e sottolineata. Oggi il mondo scopre con sorpresa e allarme qualcosa che per noi è realtà quotidiana.
Gli ebrei vivevano in una società rurale, in cui l’impatto delle catastrofi naturali era chiaramente fortissimo.
Il nostro riferimento è la terra d’Israele che per la sua posizione geografica, peraltro molto differenziata in una piccola area, è esposta alle variazioni climatiche e ne è particolarmente sensibile. Tanto più in una economia prevalentemente rurale. Ma anche oggi in cui i sistemi economici sono differenti l’impatto delle catastrofi ambientali è disastroso. Il problema è che il mondo se ne accorge quasi all’ultimo minuto. Ma a proposito della società rurale degli ebrei, se è vero che le nostre origini e le nostre preoccupazioni sono rivolte a quella terra, è anche vero che le nostre preoccupazioni sono universali. C’era (e c’è) una festa ebraica concentrata sulla richiesta dell’acqua, Sukkòt. In questa festa si sacrificavano 70 tori, uno per ogni nazione della terra, che sono 70 nel racconto di Bereshit. La pioggia si invocava per tutti. Come a dire che le nostre preoccupazioni climatiche sono universali.
Quali sono gli insegnamenti, se ce ne sono, sul rapporto tra uomo, natura e clima? C’è un invito al rispetto?
Stiamo nell’anno sabbatico, anno in cui è proibito lavorare la terra d’Israele. Basta pensare a questo per capire come nel nostro pensiero il rapporto con la natura deve essere rispettoso, con limiti ragionevoli allo sfruttamento delle risorse. L’ecologia, per quanto ci riguarda, non è una novità, da noi “sfonda una porta aperta.”
Come possiamo interpretare le catastrofi climatiche? Può suggerirci una chiave di lettura?
Nel nostro pensiero ogni evento negativo è un campanello di allarme e un richiamo alle nostre responsabilità. In questo caso sono tali gli errori compiuti che persino il pensiero più laico non può far finta di niente.
Durante la fase acuta del Covid siamo andati a cercare e a riscoprire antiche preghiere contro le epidemie. Esistono preghiere specifiche in cui scongiuriamo o chiediamo al Signore di porre fine a periodi di siccità?
Come ho detto all’inizio, queste preghiere ce le abbiamo già nella quotidianità. E ricordiamoci di quello che disse il Signore a Moshè che pregava sulla riva del mare da attraversare: “cosa stai a gridare verso di Me, parla ai figli di Israele, che si muovano”. Preghiere si, ma diamoci una smossa.