Gli ebrei romani la memoria del “contenimento” e del confinamento in spazi ristretti e delimitati, sottoposti al controllo delle guardie del papa re durante i 315 anni dei cancelli del ghetto, la portano stampata nel DNA. La modernità l’aveva scalfita, i giovani sono stati costretti a misurarsi di nuovo con la sicurezza degli spazi sorvegliati dopo i fatti del 1982. Il virus non ci spaventa neanche un po’, siamo abituati alle emergenze. Non paragonabili per giunta a quella che hanno vissuto i nostri genitori e i nostri nonni e bisnonni tra il 1938 e il 1944. Ma la nostra è una comunità che vive di commercio medio e piccolo, che conserva i banchi del commercio ambulante, che ancora si batte per difendere la tradizione degli urtisti e dei cosiddetti ricordari. Che ha bisogno del turismo e dei viaggi di milioni di visitatori nella nostra seconda città eterna (la prima è Gerusalemme). Che vede gli abbienti –non molti in verità – aver convertito in case vacanza il proprio patrimonio immobiliare. Usciremo impoveriti da Covid19, sia come singoli che come Keillà.
La Deputazione di Assistenza operava, infatti, con sacrificio e dedizione al limite delle proprie possibilità. Non illudiamoci, occorrerà molto tempo per tornare alle difficoltà già scontate e ben conosciute.
Tuttavia non è di questo che intendo scrivere, quanto piuttosto della eterna coazione a ripetere che caratterizza le società umane, anche al tempo di internet. Esattamente come accade nelle famiglie, nella società l’insorgere di una malattia grave – epidemia, pandemia, o quel che volete – mette a nudo la natura vera e profonda dei rapporti, talora li smaschera, rivela conflitti come anche incoraggia riavvicinamenti insospettabili e gesti di eroismo altruistico.
La grande letteratura ha fatto delle pestilenze la chiave d’interpretazione e descrizione dei comportamenti estremi, quelli abietti e quelli sublimi. Tucidide, Lucrezio, Virgilio (nelle Georgiche, con la morìa degli animali), Boccaccio, Defoe sono i grandi classici. Sempre citati, e ben conosciuti. Restiamo nella modernità, o meglio agli albori di essa: e dunque, inevitabilmente, Alessandro Manzoni. Ma c’è anche un insospettabile, e cioè Giacomo Leopardi. Il colera del 1836-1837 fu devastante nello Stato della Chiesa e soprattutto nel Regno di Napoli. In Sicilia si verificarono disordini gravissimi. Leopardi morì nell’estate del 1837. “Triste necessità…mi hanno trattenuto di giorno in giorno…fino alla più trista di tutte ch’è il cholèra, scoppiato prima nelle provincie del Regno e poi nella capitale.” (da Napoli al padre Monaldo, 30 ottobre 1836). “L’assoluta mancanza di ogni riscontro…fino a oggi che dalla posta mi vengono 7 lettere…La confusione causata dal cholèra e la morte di 3 impiegati alla posta, potranno forse spiegarle questo ritardo.”(a Monaldo, 11 dicembre 1836). “Intanto le comunicazioni col nostro Stato non sono riaperte…Anzi in questi ultimi giorni tali casi paiono moltiplicati, e più e più medici predicono il ritorno del contagio in primavera o in estate… (a Monaldo in Recanati, ancora da Napoli, 9 marzo 1837).
Il grande classico è naturalmente Alessandro Manzoni. L’epidemia del 1630 si diffuse in tutte l’Europa continentale con gli eserciti assoldati per la Guerra dei trent’anni. “La peste…nel milanese, c’era entrata per davvero, come è noto…”. “Arrivando senza posa altre e altre notizie di morte da diverse parti, furono spediti due delegati a vedere e provvedere…presero in fretta e furia quelle misure che parver loro migliori; e se ne tornarono con la trista persuasione che non sarebbero bastate a rimediare e a fermare un male già tanto avanzato e diffuso”. “Il Tadino e il Ripamonti vollero notare il nome di chi ce la portò il primo…Fu un sodato italiano al servizio di Spagna…” (paziente zero, si direbbe oggi). Il Protofisico Ludovico Settala è il medico più esperto, il più autorevole consulente del Tribunale della Sanità. Chiede misure che noi potremmo definire estreme, fin dall’inizio. “Un giorno che andava in bussola a visitare i suoi ammalati, principiò a radunarglisi intorno gente gridando esser lui il capo di coloro che volevano per forza che ci fosse la peste…”. All’arcivescovo cardinale Federigo Borromeo si chiede invece di far portare in processione solenne e poi esporre in Duomo la cassa dove erano conservate le reliquie di San Carlo. Il cardinale si oppone, intuisce che il contagio è favorito dagli assembramenti. Infine è costretto a cedere. E naturalmente “le morti crebbero, in ogni classe, in ogni parte della città…”. (I Promessi Sposi, capitoli 36 e 37).
Altre citazioni sarebbero non solo superflue, ma deprimenti. Per inciso, si deve notare e ricordare che la riapertura immediata del vecchio lazzaretto proprio in città, fuori Porta Orientale, fu cosa forse necessaria; però alla fine si rivelò controproducente.
Di fronte a una malattia non curabile con i mezzi del nostro tempo, le strategie che mettiamo in campo sono esattamente uguali a quelle descritte nei Promessi Sposi per la peste di Milano del 1630. Non c’era e non c’è bisogno di riconoscere e sequenziare il DNA di virus e batteri. Basta sapere che la malattia passa da persona a persona, per contagio di prossimità. La prendono tutti, o quasi. Qualcuno sviluppa sintomi lievi, o nessun sintomo: a chi la tocca, la tocca. Dunque: negazione iniziale, caccia agli untori, cerimonie religiose, contenimento, autoreclusione dei sani nelle case, isolamento finale dei malati.
La peste politica del secolo passato si è chiamata nazifascismo, e tanto per metafora – con Albert Camus – quanto per spietato realismo – con Primo Levi – ne è stata consegnata alla storia una testimonianza destinata a durare “finché il sole risplenderà su le sciagure umane” (Foscolo, I Sepolcri). Questa è un’altra storia, ma solo in apparenza: finito Covid19 il potere presenterà il conto. Saremo noi tutti a dover decidere chi, come, quanto si dovrà pagare. Ma il conto sarà molto salato, in ogni caso.