In questa parashà è scritto: “Moshè dette loro questo ordine: Al termine di sette anni, nel tempo della Shemità, durante la festa di Sukkòt, quando tutto Israele verrà a presentarsi davanti all’Eterno tuo Dio nel luogo che avrà scelto, leggerai questa Torà al cospetto di tutto Israele in modo che essi la odano” (Devarìm, 31:10-11).
Il Nachmanide (Girona, 1194-1270, Acco) commenta che le parole “Leggerai questa Torà”, non significano che il Re doveva leggere tutta la Torà. I maestri infatti insegnano (T.B., Sotà, 41a) che il Re leggeva diverse parashòt dal libro di Devarìm durante la festa di Sukkòt dopo il ciclo settennale della Shemità.
R. Ya’akòv Kamenetzky (Lituania, 1891-1986, Baltimora) in Emèt le-Ya’akòv (p. 532) chiede cosa abbia di speciale il libro di Devarìm per essere stato designato ad essere letto una volta ogni sette anni a Gerusalemme alla presenza di tutto il popolo.
Il motivo per cui proprio il Re leggeva il libro di Devarìm, è che Moshè scrisse questo libro quando i figli d’Israele si apprestavano ad entrare in Eretz Israel. Pertanto raccolse in questo libro tutti gli argomenti relativi alla conduzione e all’organizzazione dello stato nel quale il Re era responsabile che il popolo si comportasse in conformità con le leggi della Torà.
Una seconda domanda è che differenza c’è tra il libro di Devarìm e i primi quattro libri della Torà? La risposta è che Devarìm è chiamato “Il libro di Moshè”.
Nel libro di Nechemià (13:1) è scritto: “In quel giorno venne letto nel libro di Moshè con il popolo che ascoltava e vi era scritto che gli uomini Moabiti e Ammoniti non potessero mai sposare una donna della comunità di Dio”. Perché in questa occasione fu scritto “il libro di Moshè” e non “il libro della Torà di Moshe” come altrove? R. Kamentezky spiega che l’espressione “Il libro di Moshè” si riferisce in modo specifico al libro di Devarìm.
R. Kamenetzky cita un’altra fonte. Nel trattato Bavà Batrà (14b) è scritto che “Moshè scrisse il suo libro, la parashà di Bil’àm [in Bemidbàr] e il libro di Giobbe”. La difficoltà insita in questa citazione è che anche il racconto di Bil’àm fa parte della Torà. Da qui si deduce che “Il suo libro” non è tutta la Torà bensì il libro di Devarìm.
Un’altra prova che “il libro di Moshè” è Devarìm si trova nel libro delle Cronache (II, Divrè Ha-Yamìm, 25:1-4) dove è scritto: “Quando divenne re, Amatzià aveva venticinque anni; regnò ventinove anni in Gerusalemme […]. Quando il regno si fu rafforzato nelle sue mani, egli uccise gli ufficiali che avevano assassinato il re suo padre. Ma non uccise i loro figli, perché sta scritto nella Torà, nel libro di Moshè, il comando dell’Eterno: I padri non moriranno per i figli, né i figli per i padri, ma ognuno morirà per il suo peccato (Devarìm, 25:16).
Il libro di Devarìm è chiamato “il libro di Moshè” perché mentre i primi quattro libri erano parola divina per bocca di Moshè, il libro di Devarìm era profezia ricevuta da Moshè come quelle dei profeti che lo seguirono. Mentre nei primi quattro libro della Torà, Moshè parlava al popolo mentre riceveva la profezia, nel libro di Devarìm l’insegnamento al popolo non era contemporaneo, ma avveniva in tempi successivi alla profezia. Per questo Devarim era chiamato “il suo libro”, come quelli di altri profeti.
Rav Eliyahu Benamozegh (Livorno, 1823-1900) fa notare che il passaggio dalla Torà scritta a quella orale è graduale. Devarìm ha già alcune caratteristiche della tradizione orale perché comprende anche alcune elaborazioni che Moshè da’ al popolo dei quattro libri precedenti.