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    Parashà di Vaetchanàn: Non pensarci neppure!

    In questa parashà Moshè ripete al popolo d’Israele i Dieci Comandamenti, con qualche variazione di linguaggio al fine di essere più esplicito. Nella parashà di Yitrò è scritto: “Non desiderare (lo tachmòd) la casa del tuo prossimo, non desiderare la moglie di lui, né il suo schiavo né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino. Né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo” (Shemòt, 20: 17).

                Nella parashà di Vaetchanàn è scritto: “Non desiderare (lo tachmòd) la moglie del tuo prossimo, e non bramare (lo titavè) la casa del tuo prossimo, né il suo campo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo” (Devarìm, 5: 21).

                Perché la Torà in questa parashà aggiunge l’espressione “lo titave” a quella di “lo tachmòd”?  E qual è la differenza tra le due espressioni che hanno il significato di desiderare qualcosa che non ci appartiene? 

                R. Meir Leibush Wisser (Ucraina, 1809-1879) detto Malbim, dalle sue iniziali, nel Sèfer Ha-Karmèl (voce Chamàd), spiega che la differenza tra la voce Chamàd (e Chemdà) e le altre che esprimono desiderio, è che chemdà deriva  da un desiderio che nasce dal vedere qualcosa che attrae. La chemdà dipende quindi dai sensi.  La taavà invece deriva da un desiderio di una cosa che non è di fronte a noi. L’attrazione non è per via della bellezza di quello che si vede, ma piuttosto dal desiderio che viene dall’interno della persona. 

                Il Maimonide (Cordova, 1138-1204, Il Cairo) nel Sèfer Ha-Mitzvòt, dove elenca le 613 mitzvòt della Torà, conta “lo tachmòd” e “lo titavè” come due mitzvòt proscrittive (da non trasgredire) separate. 

                L’autore catalano del Sèfer ha-Chinùch (XIII sec. E.V.) citando il Maimonide, spiega perché la proibizione di “lo titavè” è diversa da quella di “lo tachmòd”.  La proibizione di “lo tachmòd” ci proibisce di prendere possesso in qualunque modo di quello che appartiene al prossimo, se costui non ce lo vuole vendere. È un desiderio che conduce a un’azione. La proibizione di “lo titavè” invece ci proibisce perfino di desiderare nel nostro cuore di prendere possesso di quello che appartiene al prossimo.  

                E se tu domandassi, come fa un essere umano a impedire di desiderare qualcosa che si trova presso il prossimo? Perche la Torà proibisce qualcosa che un essere umano non può controllare?  La risposta è che non è così. La verità è che un essere umano ha la possibilità di controllare i propri pensieri e i propri desideri.  E il Creatore, che conosce anche i pensieri più reconditi degli esseri umani punirà i trasgressori e ricompenserà coloro che hanno buoni pensieri. 

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