In questa parashà viene raccontato che vi fu una seconda carestia, dopo quella che aveva costretto Avraham ad andare in Egitto alla ricerca di pasture per il suo gregge. In questa occasione fu il figlio Yitzchak che uscì dalla terra di Canaan per andare in Egitto e si fermò nel territorio dei Filistei quando l’Eterno gli apparve dicendogli: “Non scendere in Egitto” (Bereshìt, 26:2). Nel paese dei Filistei, Yitzchak si dedicò anche all’agricoltura e il raccolto fu eccezionale. Divenne sempre più ricco, i Filistei furono invidiosi del suo successo e Avimelekh, re dei Filistei, gli ordinò di andarsene dal paese. I Filistei avevano anche riempito di terra i pozzi di acqua corrente che Avraham aveva trivellato molti anni prima (ibid., 12-16).
R. Naftali Tzvi Yehuda Berlin (Belarys, 1816-1893, Varsavia) in Ha’amek Davar (p.253) commenta che l’espulsione di Yitzchak da Gheràr, con la scusa che si era arricchito a spese degli abitanti locali, è tipica di quello che sarebbe avvenuto nei secoli futuri.
Yitzchak si attendò nella piana di Gheràr e scavò di nuovo i pozzi di acqua corrente che avevano scavato anni prima i servitori di suo padre Avraham. Oltre a questi, Yitzchak scavò altri tre pozzi. I primi due, nominati ‘Essek e Sitnà furono oggetto di contestazione perché i Filistei sostenevano che l’acqua appartenesse a loro.
R. Shimshon Rafael Hirsch (Amburgo, 1808-1888, Francoforte) commenta che non c’è dubbio che la trivellazione era legale, perché il terreno era libero e chi faceva la trivellazione e trovava l’acqua era il legittimo proprietario del pozzo. La conferma della legalità della proprietà la impariamo dal fatto che a suo tempo Avraham chiese ad Avimelekh solo il riconoscimento ufficiale che era stato lui a trivellare e a trovare acqua. R. Hirsch aggiunge che questi erano pozzi sotto i quali scorreva una sorgente e nessuno poteva sostenere che Yitzchak aveva dirottato l’acqua impedendo l’accesso ad altri.
Mentre vi fu una contestazione per i primi due pozzi, sul terzo pozzo nominato Rechovòt non vi furono contestazioni. Successivamente quando Yitzchak abitava a Beersheva’, il re Avimelekh venne a visitarlo con il capo dell’esercito e il suo seguito, chiedendogli di fare un patto perché aveva visto “Che l’Eterno è con te” (ibid., 28). L’indomani Avimelekh e i suoi se ne andarono e i servitori di Yitzchak tornarono con la notizia che trivellando avevano trovato un altra sorgente. La Torà racconta che Yitzchak “Chiamò il pozzo Shiv’a, perciò la città (ha’ir) si chiama ancora oggi Beersheva’” (ibid., 33). Yitzchak chiamo così il pozzo perché era il settimo dopo i quattro suoi e i tre del padre Avraham.
R. Eli’ezer Ashkenazi (Italia, 1521-1585, Cracovia), che fu rabbino a Cremona, nella sua opera Ma’asè Hashem (p. 404) chiede perché nella Torà è scritto che la città di Beersheva’ prende il suo nome dal fatto che Yitzchak aveva chiamato il pozzo Shiv’a? La Torà racconta che il nome della città era stato dato da Avraham molti anni prima, quando era venuto a patti con il re dei Filistei di allora! In quella occasione dopo aver fatto il patto, Avraham diede sette agnelli al re Avimelekh (tutti i re dei Filistei avevano questo nome, nello stesso modo in cui tutti i re d’Egitto erano chiamati Faraone). Gli disse di prendere i sette agnelli come testimonianza che egli, Avraham, aveva scavato il pozzo e che pertanto gli apparteneva (Bereshìt, 21:30). Nel versetto successivo la Torà racconta: “Perciò, poiché là giurarono ambedue, quel luogo (makòm hahù) si chiamò Beersheva’”. Il luogo venne chiamato Beer-Sheva’, che significa “Il pozzo del giuramento”
R. Ashkenazi spiega che il nome della città fu dato da Yitzchak. Ai tempi di Avraham solo l’area (makòm hahù) vicino al pozzo venne chiamata Beersheva’. Ora che Yitzchak aveva scavato un altro pozzo, tutta la città (ha’ir) prese il nome di Beersheva’.