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    Parashà di Terumà: Prendere per dare

    Dopo aver ricevuto la Torà al Monte Sinai, l’Eterno disse a Moshè di chiedere ai figli d’Israele di donare i materiali necessari per la costruzione del mishkàn. Il mishkàn era il tabernacolo mobile che li avrebbe accompagnati per il viaggio nel deserto fino ad Eretz Israel. Queste donazioni erano chiamate “terumà”. Cosa significa “terumà?  

    R. Shabbetai Bass (Polonia, 1641-1718) autore del super commento Siftè Chakhamìm a quello di Rashì, scrive che in altri contesti la parola “terumà” dalla radice “rm” significa elevazione. In questo contesto invece  Rashì (Troyes, 1040-1105) spiega che “terumà” significa “hafrashà”, separazione. Agli israeliti veniva chiesto di mettere da parte una porzione dei loro beni per la costruzione del mishkàn.

                R. Avraham Halevi Bacrat, espulso da Malaga nel 1492, si rifugiò a Tunisi. Tra il 1507 e il 1516 scrisse il  Sèfer ha-Zikaròn al commento di Rashì, pubblicato per la prima volta nel 1845 a Livorno dai fratelli Ashkenazi. In questa sua opera, uno dei primi super-commenti a Rashì, afferma che Rashì da’ questa spiegazione per via del fatto che nella Torà è scritto che “prendano” e non che “diano”, come ci saremmo aspettati. Infatti nel primo versetto della parashà è scritto: “E l’Eterno parlò a Moshè dicendo: parla ai figli d’Israele e fai che prendano per Me una “terumà”. Prenderete la Mia “terumà” da ogni persona che la darà di sua volontà” (Shemòt, 25:2). Questo significa che la “terumà” doveva essere messa da parte per darla ai tesorieri (ghizbarè ha-hekdèsh) che l’avrebbero raccolta.

                R. Joseph Pacifici (Firenze, 1928-2021, Modiin Illit), suggerisce che il motivo per cui nella Torà è scritti “Prendano per Me ” e non “Diano a Me” è che tutto il creato appartiene al Santo Benedetto. Pertanto non Gli possiamo dare nulla. Infatti re Davide in Divrè ha-Yamìm, (I Cronache, cap. 28:14) scrive “Che tutto viene da Te e ti abbiamo dato quello che abbiamo ricevuto da Te”. Ci viene solo chiesto di mettere da parte di buon cuore una donazione per il mishkàn. R. Pacifici aggiunge che la “terumà” doveva essere data di buon cuore perché lo scopo del mishkàn era di far sì che la Presenza divina fosse sentita tra gli israeliti. Questo fu il primo esempio della nota generosità ebraica nel donare grandi somme per le istituzioni di Torà  e di beneficienza. Poiché queste donazioni erano volontarie ognuno poteva dare quanto voleva dei materiali richiesti. 

                Anche R. Moshè Feinstein (Belarus, 1895-1986,New York) in Daràsh Moshè (p. 61) si sofferma sull’espressione “Prendano per Me”. Egli scrive che “prendano” è  un termine apparentemente improprio trattandosi di donazioni volontarie. Una spiegazione è che le mitzvòt della tzedakà e di fare del bene (ghemilùt chassadìm) sono diverse da altre mitzvòt. Per esempio, vi sono mitzvòt che ci proibiscono  cose o azioni. I maestri insegnano che non bisogna dire “la carne suina non mi attrae” o anche “una donna a me proibita non mi attrae”. Bisogna dire “mi attrae, ma cosa posso fare che il Santo Benedetto me lo ha proibito”. Quando si fa tzedakà e opere di bene bisogna invece farlo di tutto cuore e non sentendosi forzati. Questo significa che bisogna operare sul proprio istinto naturale (yètzer ha-ra’) che vuole tenere per se la “roba mia”. Il motivo per cui è scritto “prendano” e non “diano” è che il donatore grazie al suo buon istinto (yètzer tov) e allo studio della Torà, “prenda” anche la forza dell’istinto naturale e la usi per donare di tutto cuore. 

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