Le parashòt di Tazri’a e Metzora’, che vengono spesso lette insieme, trattano delle malattie della pelle (tzara’àt) che causavano impurità.
R. ‘Ovadià Sforno (Cesena, 1475-1550, Bologna), che era medico, spiega che queste malattie della pelle, che venivano in quattro tonalità di colore bianco e che rendevano impura la persona, non avevano nulla a che fare con malattie molto più gravi che si manifestano con macchie di colori dal rosso al nero. Queste ultime erano le famose gravi malattie d’Egitto (Devarìm, 7:15). Le malattie della pelle descritte nella Torà sono definite dai Maestri nel Talmud (Berakhòt, 5b) come “un altare di espiazione” perché sono avvertimenti divini alle persone afflitte per esortarli a introspezione e a correggere i propri comportamenti.
Verso la fine della parashà di Tazria’ è scritto: “E se un uomo o una donna abbiano sulla pelle del loro corpo macchie lucide, macchie lucide bianche, il kohen le guarderà, e se vedrà che sulla pelle del loro corpo vi sono delle macchie lucide di un bianco sbiadito, si tratta di una affezione cutanea (bòhak; qualcuno la identifica con vitiligine o leucodermia) che è fiorita sulla pelle e l’ammalato è puro” (Vayikrà, 13:38-39).
R. Moshè Feinstein (Belarus, 1895-1986, New York) in Daràsh Moshè (ed. Inglese, p. 185) scrive che anche se la persona afflitta da tsara’àt era una chakhàm che poteva fare da solo una diagnosi e vedere che si trattava di una semplice affezione cutanea, la Torà richiedeva ugualmente che si rivolgesse a un kohen che dichiarasse che si trattava di bòhak e che pertanto la persona era pura. Il motivo di tutto questo è che una persona deve rendersi conto che ogni cambiamento corporeo è un avvertimento per qualche peccato commesso nel passato. E anche se si tratta di un semplice bòhak, colui che ne è afflitto deve rivolgersi al kohen, un servitore dell’Eterno, per imparare a migliorare i propri comportamenti: a servire l’Eterno con alacrità e stare attento a non commettere trasgressioni. Questa è appunto la funzione dei kohanim, riguardo ai quali la Torà insegna che “Essi insegneranno i Tuoi statuti a Ya’akòv e la tua legge a Israele” (Devarìm, 33:10).
Rav Feinstein aggiunge che nessuno deve prendere le sofferenze alla leggera e dire che poco importa. I Maestri ci insegnano (T.B. ‘Arakhìn, 16b) che anche una semplice frustrazione, come quella di non trovare una moneta che si credeva di avere in tasca, è considerata una sofferenza. Nessun tipo di sofferenza va trascurato; bisogna rendersi conto che è un messaggio dell’Eterno che avverte la persona a migliorare il suo comportamento.
L’argomento della sofferenza umana è trattato in modo approfondito da R. Joseph Beer Soloveitchik (Belarus, 1903-1993, Boston) in Kol Dodì Dofèk. Moshè stesso si rivolse all’Eterno per capire il perché delle sofferenza umana; questo fu un enigma anche per i profeti Habbakùk e Yirmeyà (Geremia), e per i re Davide e Salomone. Il libro di Iyòv (Giobbe) è tutto dedicato a questo argomento. R. Soloveitchik nella sua estesa trattazione dell’argomento conclude che non abbiamo una risposta al perché. Il problema dev’essere formulato nel linguaggio della Halakhà in questo modo: “Qual è l’obbligo che incombe sull’uomo quando soffre?”. Non domandiamo quale sia il motivo del male e il suo scopo, ma cosa deva fare l’uomo per non marcire nella sua afflizione.
La risposta è che la sofferenza viene per elevare l’essere umano. La sofferenza richiede che l’essere umano si penta e ritorni all’Eterno.