Nella parashà è scritto che se nel corso di un diverbio un litigante percuote l’altro causando danni fisici, il primo lo indennizzerà del tempo che ha perduto e “rapò ierapè”, che viene tradotto con le parole ”lo farà curare fino a che sia guarito”. Onkelos traduce le parole “rapò ierapè” liberamente in aramaico con “dovrà pagare per la sua guarigione”. Letteralmente “rapò ierapè” significa “riguardo a guarire, lo farà guarire”. Le parole “rapò ierapè” hanno come radice le lettere resh pe alef, dalla quale derivano le parole refuà (guarigione) e rofè(medico).
R. Feivel Cohen (Brooklyn, 1937-2022) fece notare che la doppia espressione “rapò ierapè” è oggetto di discussione nel Talmud babilonese (Bavà Kamà, 85a). In quel trattato i Maestri trattano l’argomento dei danni causati ad altri e di come questi danni vadano compensati. Riguardo alle parole “rapò ierapè’” un discepolo della scuola di r. Yishma’el disse che la doppia espressione “rapò ierape” insegna che la Torà permette al medico di curare il malato. Altrimenti sarebbe bastato scrivere ”ierapè” (lo farà guarire).
R. Cohen chiede per quale motivo si deve imparare dalla doppia espressione che è permesso al medico di curare un malato. Sarebbe forse proibito curare un malato? Al contrario, la Torà insegna che siamo obbligati a fare del bene al prossimo specialmente quando ne ha bisogno! A questa domanda egli cita tre spiegazioni.
Rashì (Troyes, 1040-1105) nel suo commento a Bavà Kamà scrive che la Torà insegna che è permesso al medico curare i malati e non diciamo che “Se è il Creatore che lo ha fatto ammalare, che sia il Creatore che lo guarisca”. R. Cohen osserva che secondo questa spiegazione senza la doppia espressione “rapò ierapè” non sarebbe stato permesso a un medico di curare un paziente. Il motivo è che cosi facendo si andrebbe contro la volontà divina che ha fatto ammalare il paziente. (Egli fa notare però che non è chiaro se sarebbe proibito curare un malato anche se fosse in pericolo di vita). Il problema di questa spiegazione è che se possiamo riparare oggetti rotti è logico dedurre che si possano “riparare” anche gli esseri umani. In conclusione, r. Cohen spiega che secondo Rashì l’espressione “rapò ierapè” è necessaria perché così come la creazione del mondo è nelle mani del Creatore anche la cura dei malati è nelle Sue mani.
Come seconda spiegazione R. Cohen cita il Nachmanide (Girona, 1194-1270, Acco) che in Toràt Ha-Adàm (p. 41 edizione Mossad ha-rav Kook curata da rav Chaim Dov Shevel) offre un’altra spiegazione. La doppia espressione “rapò ierapè” è nella Torà per fare sì che il medico non si astenga dal curare i malati per timore di causarne inavvertitamente la morte (In pratica è una licenza di praticare medicina).
R. Cohen aggiunge una terza spiegazione: con “rapò ierape” la Torà insegna che al medico è permesso farsi pagare per le sue cure: mentre di regola è proibito ricevere una ricompensa per l’osservanza di una mitzvà (Talmud Nedarìm, 37a, e Sèfer Chassidìm, 295) è permesso farsi pagare per curare un malato. L’espressione “rapò ierapè” è quindi necessaria. Questa spiegazione appare nelle Tosefòt Ha-Rosh, Berakhòt60a, a nome di r. Ya’akov di Orleans (m. 1189, Londra).
R. Cohen ritiene che la terza spiegazione sia quella che risponda meglio al linguaggio talmudico “Da qui impariamo che è concesso al medico il permesso di curare”. Questa spiegazione insegna che la proibizione di ricevere ricompense per osservare delle mitzvòt non sussiste quando si tratta di curare un malato.