Alla fine della parashà di Beha’alotekhà è raccontato che Miriam, sorella di Moshè, disse alcune parole critiche su di lui. Per questo fu punita con la tzara’at. Aharon chiese a Moshè di pregare per la guarigione della sorella maggiore dicendo: “Non lasciare che [Miriam] sia come un morto” (Bemidbàr, 12:12). Rashì (Troyes, 1040-1105) commenta che da qui impariamo che chi è colpito da tzara’at è paragonato a un morto.
R. Pinchas Rosenzweig di Gerusalemme in Peer Yashàr (p. 326) domanda: per qual motivo chi sparla del prossimo viene punito con la tzara’at? R. Rosenzweig suggerisce che su ogni israelita incombe l’obbligo di verificare i propri comportamenti. Questo concetto è espresso da R. Moshè Chayim Luzzatto (Padova, 1707-1746, Acco) in Mesillàt Yesharìm (cap. 3): non è solo importante verificare se si ha commesso qualcosa di illecito (yepashpèsh be-ma’asav), ma anche verificare se le buone azioni sono state fatte senza ulteriori interessi (yemashmèsh be-ma’asav).
R. Rosenzweig scrive che analizzando la maldicenza da questo punto di vista è evidente che chi sparla del prossimo non cerca di correggere il proprio comportamento. Invece di pensare a se stesso, va a vedere quello che manca nel prossimo; non fa teshuvà perché è troppo occupato a guardare i difetti degli altri. Pertanto dal punto di vista spirituale chi sparla del prossimo è come un morto perché questo difetto gli impedisce di sviluppare in se stesso le forze necessarie per fare teshuvà. Quando la persona colpita da tzara’at per aver commesso maldicenza viene isolata dal pubblico ha tempo di riflettere sulle colpe che ha commesso. La visita del kohen gli deve servire da ispirazione. Da persona che aveva perso la strada verso la teshuvà, ora esamina le proprie azioni, riacquista la propria spiritualità e diventa il migliore esempio di penitente.
Questa affermazione trova un supporto dal tipo di sacrifici che il metzora’ doveva portare al Bet Ha-Mikdàsh dopo che il kohen aveva dichiarato che non era più affetto dalla tzara’at. Nella Torà è scritto: “Il kohendarà ordine che si prendano per il purificando due uccelli sani puri, un ramo di cedro e un filo di lana di colore cremisi derivato da un verme, ed issopo”(Vaykrà, 14:4). I due uccelli ci ricordano dei due capri per l’espiazione dei peccati di tutto Israele nel giorno di Kippur. Essi devono essere uguali proprio come i due capri. Il ramo di cedro, che è un albero maestoso, allude al fatto che la maldicenza viene commessa per via dell’arroganza di chi sparla del prossimo. E per guarire bisogna umiliarsi come un verme e un issopo.
Rav Daniel Terni (Ancona c1740-c1815, Firenze), in Shem ‘Olàm cita i maestri che nel trattato‘Arachìn (15b) insegnano che [ora che non abbiamo il Bet Ha-Mikdàsh] per correggere questo suo difetto, se il maldicente è una persona che sa studiare, deve studiare Torà. Questo lo si impara dal versetto di Mishlè(Proverbi, 15:4) dove è scritto “L’albero della vita guarisce la lingua”. La lingua di cui parla il versetto non è altro che la malalingua, come è dimostrato dal profeta Yirmeyà (Geremia, 9:7) che disse: “La loro lingua è un dardo micidiale“. L’albero della vita non è altro che la Torà, come è detto in Mishlè (Proverbi, 3:18): “È un albero di vita per coloro che l’afferrano”. Se invece il maldicente è una persona che non sa studiare, si umilii come è detto in Mishlè (Proverbi, 15:4) di “rompere lo spirito”.
R. David Feinstein (Belarus, 1929-2020, New York ) in Kol Dodì Parperaòt la-Chokhmà (p.137) osserva che nella Torà è scritto che i due uccelli devono essere puri, in ebraico tehoròt. Il valore numerico di questa parola è 620, proprio come la parola kèter, corona. Questo allude al fatto che facendo teshuvà, il penitente riacquista la “propria corona”, ovvero che è libero di ritornare a casa e di essere il padrone di se stesso.