Questa è la penultima parashà della Torà e capita di frequente che venga letta nel sabato denominato Shabbàt Teshuvà, il sabato del pentimento, che cade tra Rosh Ha-Shanà e Kippur. Ed è proprio per questo motivo che viene letta in questo sabato.
Il Maimonide (Cordova, 1138-1204, Il Cairo) nel Mishnè Torà (Hilkhòt Tefillà, 13: 5) scrive: “Tutti coloro che salgono a leggere la Torà iniziano (la lettura) con un argomento buono e finiscono con un argomento buono”. La lettura della cantica di Haazìnu è un’eccezione a questa regola perché, aggiunge il Maimonide, “il cantico è un’ammonizione al popolo e deve servire loro a fare Teshuvà“, cioè a farli tornare sulla retta via.
La parashà inizia con queste parole: “Porgete orecchio, o cieli, ed io parlerò, e ascolti la terra le parole della mia bocca. Si spanda il mio insegnamento come la pioggia, stilli la mia parola come la rugiada, come i venti tempestosi sulla vegetazione, e come le gocce di pioggia sopra i fili d’erba. Quando proclamerò il nome dell’Eterno, magnificate il nostro Dio! Quanto alla Rocca, l’opera sua è perfetta, poiché tutte le sue azioni sono giuste. È un Dio fedele e senza iniquità; egli è giusto e retto” (Devarìm, 32: 1-4).
R. ‘Ovadià Sforno (Cesena, 1475-1550, Bologna) nel suo commento alla Torà spiega che i primi versetti sono parole introduttive di Moshè con le quali egli assicura il popolo che l’Eterno è fedele e si cura di loro. R. Sforno commentando il versetto nel quale si paragona l’insegnamento divino alla pioggia e alla rugiada, scrive che la Torà viene capita a diversi livelli. La gente meno istruita legge la Torà e ne assorbe l’insegnamento più immediato e superficiale. Non ne approfondisce quindi il significato. Si ferma allo peshàt, la spiegazione semplice, paragonata alla rugiada. Sono solo le persone più istruite che approfondiscono lo studio, paragonato alla pioggia e ai venti.
Gli studiosi più profondi possono studiare anche il rèmez, il deràsh e il sod, gli insegnamenti nascosti della Torà. Sono questi i quattro livelli dello studio della Torà, accennati nello Zòhar (Bereshìt, 26b), che Dante certamente apprese dai cabalisti ebrei italiani, e riportò nel Convivio (trattato secondo, capitolo 1) denominandoli “litterale, allegorico, morale e sovrasenso”.
R. Aharon Hakohen di Ragusa (n. 1580) nel suo commento Zekàn Aharòn (pubblicato postumo nel 1657 a Venezia), scrive che il versetto «La Rocca la cui opera è perfetta» corrisponde a quello che è scritto nel libro di Kohèlet (Ecclesiaste, 3:11): «Che gli uomini non possono capire l’opera di Dio dall’inizio alla fine». E spiega che quando l’uomo vede le azioni del Santo Benedetto ne vede solo una parte e per questo ha difficoltà a capirne la giustezza; se potesse avere una visione completa della realtà si renderebbe conto che tutto l’operato dell’Eterno è fatto con giustizia.