In questa parashà Moshè continua con raccomandazioni, consigli e ammonimenti al popolo che si appresta a entrare nella Terra Promessa sotto la guida di Yehoshua’: “Guardati bene dal dimenticare l’Eterno tuo Dio omettendo di osservare i suoi precetti, le sue leggi e i suoi statuti che io ti comando oggi” (Devarìm, 8:11). Moshè avverte il popolo che dopo aver sconfitto i cananei ed essersi ben insediati in Eretz Israel potrebbero pensare: “Fu la mia forza e la potenza della mia mano che mi procurò questo benessere. Ma ti ricorderai invece dell’Eterno tuo Dio perché è Lui che ti concede la forza di procurarti il benessere…” (Ibid., 17-18).
Il Nachmanide (Girona, 1194-1270, Acco) commenta che è risaputo che gli israeliti erano forti e ottimi combattenti e anche grazie a queste doti sconfissero in pochi anni tutti i re di Cana’an. Per questo Moshè disse loro di non pensare che avrebbero fatto tutto da soli. Disse loro di ricordare che l’Eterno gli fece uscire dall’Egitto quando non avevano alcuna forza; che li aveva fatti sopravvivere nel deserto, cosa che non sarebbero stati capaci di fare da soli. E che anche la conquista della terra non sarebbe stata possibile senza l’aiuto divino.
R. Moshè Feinstein (Belarus, 1895-1986, New York) in Daràsh Moshè (p. 293) cita il Midràsh Yalkùt Shim’onì nel quale i nostri maestri descrivono come alcuni re d’Israele si resero conto che non avrebbero potuto fare nulla senza l’aiuto divino. Durante il regno di re David il popolo aveva fiducia nell’Eterno e si rendeva conto che nessuna battaglia sarebbe stata vinta senza assistenza divina. Per questo motivo David combatté le sue battaglie usando le normali tattiche di guerra sapendo che tutti avrebbero riconosciuto che la vittoria era dovuta all’aiuto del Supremo (Salmi, 18:38).
Re Asà, cinque generazioni dopo David, sapeva che la fiducia dei suoi sudditi era traballante e temeva che se i nemici fossero stati sconfitti combattendo con le normali tattiche di guerra, il popolo avrebbe pensato che la vittoria fosse stata merito della “La mia forza e la potenza della mia mano”. Pertanto questo re pregò che l’Eterno eliminasse i nemici in modo miracoloso prima che li raggiungesse mentre li inseguiva (II Cronache, 14:12).
Re Yehoshafàt, figlio di Asà, che regnò quando la fiducia nell’Eterno era ancora più tiepida, temeva che se avesse inseguito i nemici, anche se fossero caduti in modo miracoloso, il popolo avrebbe pensato che erano stati loro a vincere. Pertanto si limitò a recitare un canto di lode all’Eterno (II Cronache, 20:22).
Re Chizkiyàhu, alcune generazioni più tardi, non fece neppure quello, pensando che recitando un canto di lode il popolo avrebbe pensato che la sconfitta dei nemici fosse avvenuta per qualche incantesimo. Pertanto chiese all’Eterno di fare miracoli senza nessun intervento da parte sua (II Re, 19:35).
R. Feinstein concluse che se ai tempi dei re di Israele l’intervento miracoloso dell’Eterno era necessario, a maggior ragione questo vale per i nostri giorni, quando il nostro livello è così inferiore. E aggiunse: “E forse anche molti di coloro che sono lontani dalla Torà, si potrebbero rendere conto dei miracoli che l’Eterno fece [durante la Guerra dei Sei Giorni] quando Medinatènu [il nostro Stato], da lunedì a giovedì, in soli quattro giorni, sconfisse l’Egitto e gli altri paesi arabi che erano più numerosi e meglio armati”. Dopo la sua analisi dettagliata, il corrispondente militare per il quotidiano laico Haaretz riassunse la Guerra dei Sei giorni con l’ammissione: “Anche una persona non religiosa deve ammettere che questa guerra è stata combattuta con l’aiuto del cielo” (Hatekufà Haghedolà, p. 445).