
Alla fine di agosto ho passeggiato in via Krochmalna a Varsavia, dove aveva vissuto, fino al 1935, lo scrittore Premio Nobel per la letteratura Isaac Bashevis Singer. Mia moglie dice che se non leggo o rileggo un libro di Singer al mese, non sono in pace con la mia identità. E forse ha ragione. Camminare per via Krochmalna è stata una emozione profonda e naturale, una sensazione di ritorno paradossale a casa attraverso le parole di Isaac Singer che così scrisse: “La mia casa paterna in via Krochmalna a Varsavia era una casa di studio, un tribunale, una casa di preghiera, un luogo dove si narravano storie e si celebravano anche matrimoni e banchetti chassidici. Da bambino ho sentito esporre da mio fratello maggiore e maestro, Israel J. Singer, che più tardi scrisse ‘I fratelli Ashkenazi’, tutti gli argomenti che i razionalisti da Spinoza a Max Nordau addussero contro la religione. Ho ascoltato da mio padre e mia madre tutte le risposte che la fede in Dio può suggerire a chi dubita o cerca la verità. Nella nostra casa e in molte altre case ho capito che i problemi eterni erano più attuali delle ultime notizie che si leggevano su un giornale yiddish”.
Non è rimasto quasi nulla di quella Varsavia di prima della guerra (dove su 1.300.000 abitanti, 350.000 erano ebrei): solo tristi palazzoni di cemento e vetro. Qua e là, nascoste da ciuffi di pioppi e betulle spelacchiate, vecchie case all’apparenza disabitate. Squarci di modernità ed opulenza dei nuovi ricchi polacchi, lì dove ci sono ancora le case in mattoni e le scale scure del vecchio e povero ghetto. Eppure, in quelle sere di fine agosto, spirava una brezza fresca che bastava chiudere gli occhi per sentire sussurri lontani. Voci di un mondo in cui il calzolaio era poeta, l’orologiaio filosofo, il barbiere cantante ed il figlio del rabbino un Premio Nobel della letteratura. Un mondo cancellato, che rimane solo nelle foto, come quelle che dal 1934 al 1939 scattò Roman Vishniac. Un mondo con una sua logica ed una sua storia al di là della storia del mondo stesso. Lo spiega bene Singer: “Sono stato allevato in tre lingue morte (l’ebraico, l’aramaico e lo yiddish, alcuni questa non la considerano nemmeno una lingua) e in una cultura che si è sviluppata in Babilonia: il Talmud. Il cheder dove studiavo era una stanza dove il maestro mangiava e dove dormiva. Lì non studiavo aritmetica, geografia e storia, ma le leggi che governano i sacrifici offerti in un tempio distrutto duemila anni fa”.
Con le parole degli scritti di tutti fratelli Singer al mio fianco i miei passi in via Krochmalna hanno avuto il sapore di una consapevolezza vibrante. L’ho presa larga la mia passeggiata e venendo dalla piazza degli Eroi della rivolta del ghetto, nel mezzo della quale sorge il Polin – il Museo di Storia degli Ebrei Polacchi, sono passato per il vecchio mercato coperto in mattoni e tettoie, con l’ingresso a guglie (Hala Mirowska) ancora brulicante di banchetti e negozietti con tutte le merci, dalle coloratissime verdure alle carni esposte all’aria aperta, dalle mutande e i reggiseni di dimensioni enormi, ai giocattoli di legno e di plastica. Un mercato i cui suoni mi sono sembrati anche essi echi moderni, di un mondo scomparso. E sono arrivato in via Krochmalna per andare, numero dopo numero, a trovare i volti metaforici di una famiglia letteraria.
A via Krochmalna 6 ritrovo il covo dei ladri (dove “ogni giorno si giocava a carte, o domino o si spettegolava”); a via Krochmalna 8 l’abitazione di Keyla e di suo marito Yarme. Nel cortile c’erano anche il macellaio con la sua bottega, vecchi sarti pii e la Casa di studio e preghiera, che era pure l’abitazione del Reb Menachem Mendel di Tomaszów; a via Krochmalna 10 ho immaginato l’ abitazione della famiglia Singer e la casa di Shosha, il primo libro di Singer che ho letto a tredici anni, preso in prestito dalla biblioteca di mio padre; a via Krochmalna 17 ho voluto provare a sentire la Taverna di Eliezer con i suoi polli, le salsicce di fegato e wurstel caldi con crauti e senape. Questo mondo assente eppure così presente nei suoi vuoti mi ha fatto pensare a Yaakov che nella parashà di questa settimana esce da Beer Sheva, lasciando nella città il posto vuoto della sua assenza. Chissà se Beer Sheva o Varsavia si siano mai accorte del vuoto lasciato dall’assenza degli ebrei. Mia cugina, siciliana e polacca al tempo stesso, mi ha raccontanto che sua nonna le diceva: “Dopo la guerra su Varsavia piombò il silenzio: i cortili erano silenziosi, le strade, i balconi, le finestre. Non si sentiva più chiamare una Sorele o un Yenkele o un Hersh o una Dora”. Quelle voci sono ormai grida nei libri dei fratelli Singer o sono la brezza di una notte di agosto o l’uscita di Yaakov da Beer Sheva.













