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    IDEE - PENSIERO EBRAICO

    L’unanimità del Consiglio comunale di Napoli e una città senza più colori

    Se esiste una terra alla quale appartengo quella è la Sicilia, una città è Napoli, un popolo è quello ebraico”. Ho scritto questa frase poche settimane fa a chi mi chiedeva di “definirmi”. Questa definizione della mia identità, forse un po’ barocca e forse un po’ presuntuosa, essenzialmente vera, non ha tenuto conto del mondo nel quale vivo, dei giorni che stiamo attraversando e delle masse che hanno invaso, da ormai due anni, le piazze di molte città. La logica ed il potere sbilenco di una di queste piazze ha fatto in modo che dal 2 luglio del 2025 non ho più una città o per meglio dire la mia città, Napoli, ha deciso che non sono più un suo cittadino e che, probabilmente, non sono nemmeno degno di una vita di rispetto.
    Il 2 luglio 2025, “Il Consiglio comunale di Napoli ha approvato all’unanimità una mozione che impegna il sindaco Gaetano Manfredi e l’amministrazione a “rescindere ogni collaborazione istituzionale con enti, associazioni e istituzioni israeliane espressione diretta dell’attuale governo israeliano nei diversi settori di competenza delle politiche amministrative cittadine e privilegiando rapporti di collaborazione con organizzazioni non governative israeliane attive nel pacifismo“. Con il dolore di un figlio schiaffeggiato mi sono fermato a leggere queste poche parole ed ho compreso che ho perso la mia città, ma che anche la mia città ha perso molta della sua storica identità. Cosa ha perso Napoli? La mia città ha perso la capacità democratica di un vero confronto politico al di là delle mode ideologiche e delle bandiere, dal colore rosso, bianco, verde e nero, che non sono democratiche, ma sono fonti di deserto e di morte, quel deserto che, ci ricorda Tacito, in molti, lungo la storia, hanno chiamato pace: “Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant”: “Dove fanno il deserto, lo chiamano pace”.
    L’approvazione unanime di questa mozione mi ha dato i brividi perché l’unanimità è sempre l’espressione di un mondo senza dibattito, senza riflessione, senza coscienza critica e come insegnava Hannah Arendt: “Una unanime opinione pubblica tende ad eliminare fisicamente coloro che differiscono poiché l’unanimità della massa non è il risultato di una condivisione, ma una espressione di fanatismo ed isteria”.
    Esattamente tra fanatismo, isteria ed autocelebrazione la mia città sta vivendo questi suoi giorni di luci che brillano, di concerti, di turismo di massa e di soldo facile. Come nei giorni dopo la Seconda Guerra Mondiale, quelli descritti ne La Pelle di Curzio Malaparte, Napoli è di nuovo euforica, chiassosa, invasa, ma a differenza dei giorni del 1944 però non è invasa dalla peste della fame del dopoguerra, bensì è invasa dalla stessa corruzione che non spinge le donne a vendersi e gli uomini a calpestare il rispetto di sé, ma la visione di friggitorie, di pizze, di masse turistiche, di B&B al posto di case, di musiche assordanti, invece di melodie rendono la città intellettualmente, culturalmente e politicamente oscura, al di là di tutte le luci puntate su di sé e di tutti i vicoli che si sono trasformati in attrazioni turistiche. In queste pieghe oscure ma rumorose e festanti troviamo l’unanimità di una decisione che è violenta e razzista, fascista ed antisemita, persecutoria ed antidemocratica. E tutto questo, fino al 2 luglio 2025, non era parte della identità di Napoli. Il monocolore del pensiero unico non ha mai fatto parte dei malanni di Napoli. Ma dal 2 luglio sì. La città che per secoli si è fregiata di essere un grande ventre che accoglie, un grande abbraccio proteso verso il mar Tirreno, dal 2 luglio è diventata un ghigno arcigno di un sorriso ad un solo dente: il dente avvelenato dalla ideologia terzomondista che vuole che il mondo sia diviso tra buoni e cattivi e, una volta individuati i cattivi, questi non possano godere nemmeno della dignità del dubbio, della domanda: sono cattivi all’unanimità.
    Napule è mille culure, cantava Pino Daniele, ma adesso i colori sono ridotti ad uno solo: il colore della massa in piazza, il colore di chi protesta a tante voci, ma che in realtà ha una voce sola ed è quella del qualunquismo politico al potere.
    Probabilmente potremmo obiettare che la mozione razzista del Consiglio Comunale lascia aperta e tesa una mano verso il mondo israeliano che vuole la pace: “privilegiando rapporti di collaborazione con organizzazioni non governative israeliane attive nel pacifismo”. Queste parole non so se siano più grottesche, più stupide o più faziose. E chi stabilirà chi sono le organizzazioni cattive che possiamo mettere nella lista dei buoni? Chi deciderà chi sono coloro che tra il “fiume e il mare” si meriteranno di essere tollerati, giammai ascoltati o accettati, non come essere umani, ma almeno come subumani meno fastidiosi degli altri? Di fronte a questa possibilità di nuova discriminazione tra ebrei da eliminare subito ed ebrei da poter tollerare per qualche tempo in più la nostra risposta ebraica può essere solo quella della distanza totale e della denuncia totale di una città che sta violentando ogni centimetro dello spazio della sua storia.
    A nulla, ormai, vale ricordare alla città il suo passato, i figli ebrei che l’hanno resa illustre, che l’hanno liberata, che hanno speso le loro vite per migliorarla. A nulla, ormai, vale ricordare a Napoli il proprio passato di madre accogliente, di identità multiple, di pensieri diversi e di sintesi pacifiche di idee differenti. Napoli è ormai una vecchia matrona, antica maitresse che è di nuovo in strada, offrendosi alle masse urlanti dalle mille bandiere pluralmente fasciste con l’antico colore delle dittature di pensiero, quelle dittature pericolose perché, come la maitresse, sono truccate con il trucco volgare, ipocrita e pesante della finta democrazia, ma in realtà sono solo meretrici in vendita all’assenza di libertà, tra il puzzo di un crocchè fritto in olio stantio, mozzarella acida ed il vuoto democratico di un babà senza rum, ma che se anche avesse il rum, sarebbe comunque sbagliato.

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