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    IDEE - PENSIERO EBRAICO

    Lo Shabbat e la manna – Parashà di Beahalotechà

    Nella Torah, poche narrazioni riescono a catturare l’essenza di un rapporto tanto intimo quanto quello tra il popolo ebraico e il Divino come il racconto relativo alla manna nel deserto. Rav Asher Meir, attraverso la sua analisi della parashà di Beahalotechà – una delle più ricche nella Torah – ci guida in un’esplorazione profonda di questo miracolo quotidiano che ha nutrito non solo i corpi, ma anche le anime del popolo durante i quarant’anni nel deserto.
    Il primo incontro del popolo ebraico con lo Shabbat non avviene attraverso un comando diretto o una spiegazione teorica, ma attraverso un’esperienza concreta e tangibile: quella della manna. Ogni mattina, per sei giorni della settimana, questa sostanza miracolosa ricopriva il terreno intorno all’accampamento del popolo ebraico nel deserto. Ma il venerdì accadeva qualcosa di straordinario: una doppia porzione di manna cadeva dal cielo, mentre il settimo giorno – lo Shabbat – non ne cadeva affatto.
    Questa dinamica non era casuale, ma rappresentava la prima lezione pratica sul significato del riposo dello Shabbat: un giorno in cui il popolo doveva affidarsi completamente alla provvidenza divina, senza dover cercare il proprio sostentamento. Era un invito alla fiducia, un’educazione alla fede che si manifestava attraverso il nutrimento stesso.
    La connessione profonda tra Shabbat e manna si è preservata nei secoli attraverso rituali e usanze che continuano a caratterizzare l’osservanza contemporanea. Una delle più evocative è senza dubbio la pratica di coprire le challot – i pani intrecciati dello Shabbat – durante la recitazione del Kiddush. Questo gesto apparentemente semplice racchiude una memoria potente: ricorda infatti come la manna apparisse ogni mattina avvolta delicatamente nella rugiada, protetta e custodita come un dono prezioso. Le challot stesse, nella loro forma intrecciata e nella loro presenza doppia sulla tavola dello Shabbat, evocano quella doppia porzione che cadeva il venerdì, preparando il popolo per il giorno di riposo.
    Rashi offre una prospettiva particolarmente illuminante su questa connessione. Secondo la sua interpretazione, quando la Torah racconta che Dio benedisse e santificò il settimo giorno già al momento della creazione (Gn 2:3), questo atto di benedizione e santificazione aveva in realtà un riferimento futuro: la manna che sarebbe caduta migliaia di anni dopo nel deserto. Rashi spiega che Dio benedice il settimo giorno proprio attraverso la manna – perché una doppia porzione cade il venerdì, fornendo nutrimento anche per il giorno di riposo. Allo stesso tempo, santifica questo giorno sempre attraverso la manna – perché non cade di Shabbat, marcando così la sacralità e la diversità di questo momento. Questa interpretazione rivela una concezione del tempo profondamente diversa da quella lineare: il settimo giorno della creazione riceve il suo significato e la sua benedizione da eventi che si verificheranno in epoche successive. È come se la creazione stessa anticipasse e si preparasse per l’esperienza del popolo ebraico nel deserto.
    Lo Zohar porta questa riflessione a un livello ancora più profondo attraverso un paradosso: è proprio perché la manna non cade di Shabbat che gli altri sei giorni della settimana ricevono la loro benedizione dal settimo giorno. Come può l’assenza essere fonte di presenza? Lo Zohar suggerisce che il vero nutrimento spirituale deriva non dal ricevere continuamente, ma dal creare spazi di vuoto, di attesa, di dipendenza. Il settimo giorno, privo della manna fisica, diventa la fonte di benedizione per tutti gli altri giorni proprio perché in quel vuoto si apre lo spazio per la presenza divina più pura.
    Questa comprensione si traduce in una pratica concreta: l’obbligo di consumare tre pasti durante lo Shabbat. Non si tratta semplicemente di soddisfare un appetito fisico, ma di creare un canale attraverso il quale la benedizione dello Shabbat possa influenzare e santificare anche il nostro sostentamento nei giorni feriali. Ogni pasto dello Shabbat diventa così un ponte tra il sacro e il quotidiano, tra il riposo e il lavoro.

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