Due importanti anniversari segnano questo ottobre, gli ottant’anni dal 16 ottobre 1943, la deportazione degli ebrei romani, e i cinquant’anni dalla guerra del Kippur. Anniversari tristi, in un ottobre che è stato la cornice delle pagine più nere della comunità di Roma nel ‘900, la deportazione e quasi quarant’anni dopo l’attentato al Tempio Maggiore, con il barbaro assassinio di Stefano Gaj Tachè. Ottobre che ospita buona parte dei momenti più sacri e significativi del nostro calendario, Kippur, Sukkot, Sheminì ‘atzeret e Simchat Torah. Quei momenti che dovrebbero essere contraddistinti dalla gioia sono stati marchiati indelebilmente con il desiderio di distruggere, con il terrore e con la furia omicida.
Il 16 ottobre del ’43 era uno Shabbat ed era Chol ha-mo’ed, un giorno di mezza festa di Sukkot. La sera del 15 ottobre da Trastevere venne, nelle parole di Giacomo Debenedetti, “una donna vestita di nero, scarmigliata, sciatta, fradicia di pioggia”, che intendeva mettere in guardia gli ebrei romani per via del pericolo imminente, ma non venne ascoltata. In fondo, appena venti giorni prima erano stati consegnati i tristemente famosi cinquanta chili d’oro. I tedeschi, si pensava, sono gente d’onore. Ma gli ebrei, in quella circostanza, sbagliarono amaramente.
Trent’anni dopo, la volontà di colpire un giovane Stato che già aveva affrontato vittoriosamente vari conflitti, ancora ebbro per l’esito della Guerra dei Sei giorni, ha catapultato il mondo ebraico, in Israele e nella Diaspora, in una situazione sino ad allora non sperimentata, che avrebbe dato il la per una escalation di odio antiisraeliano di vaste proporzioni. Ma soprattutto, un po’ come avvenne agli albori dell’esperienza del giovane popolo ebraico attaccato alle spalle da Amaleq, nonostante l’esito favorevole della guerra, venne meno il senso di invincibilità che aveva colto gli israeliani e di converso il nemico acquisì coraggio.
Ciò che accomuna questi due momenti è la volontà di violare ciò che per propria natura sarebbe inviolabile, i nostri santuari nel tempo. In entrambe le circostanze si è approfittato della solennità per infliggere dolore.
Una delle costanti della storia ebraica, tuttavia, è quella della ricerca della consolazione nella sofferenza. Nella narrazione biblica, nel libro dei Numeri, quando l’asina di Bil’am, il profeta che intendeva maledire Israele, si ribella al suo malvagio padrone, troviamo un’espressione apparentemente impropria. Bil’am difatti aveva colpito l’asina per tre volte, e quando l’asina si lamenta per via di questo comportamento irriconoscente, gli chiede “perché mi hai colpito tre regalim (feste di pellegrinaggio)?”. Rashì, focalizzandosi su quest’uso di regalim, spiega che Bil’am non sarebbe riuscito a sradicare quel popolo che celebra i tre regalim, Pesach, Shavu’ot e Sukkot. Il Maharal di Praga nota come il tempo abbia una propria struttura, al pari di tante altre realtà di questo mondo, con un inizio, un centro e una fine. I regalim, momenti di gioia posti all’inizio, all’apice e alla fine del periodo caldo, rappresentano la persistenza del popolo ebraico, che si mantiene nel dispiegarsi del tempo.
Quelle realtà, che volevano distrutte, ci sono ancora, più vitali che mai. Narra ancora Giacomo Debenedetti che “la razzia si protrasse fino verso le 13. Quando fu la fine, per le vie del Ghetto non si vedeva più anima, vi regnava la desolazione della Gerusalemme di Geremia: quomodo sedet sola civitas… Tutta Roma era rimasta allibita”. Vedere come quegli stessi luoghi siano tornati ad essere il cuore pulsante della nostra Comunità e un incessante inno alla vita rappresenta una rivincita postuma, che non potrà di certo cancellare il dolore indicibile che è stato patito, ma potrà quantomeno ricordarci come il folle piano omicida di chi ci voleva cancellare dalla faccia dalla terra, prima come membri del popolo ebraico, poi come nazione, sia miseramente fallito.