“Qiddeshanu ha shelishit, la-chog et chag ha asif – abbiamo santificato la terza (dei Tre Pellegrinaggi) per festeggiare la festa del raccolto”
Con queste parole inizia un antico pijut (poesia liturgica) che gli ebrei romani, che frequentano il Tempio spagnolo, cantano alla fine della tefillà di musaf dei due giorni di Succot. Nel pijut si inneggia al Signore che concede al Suo popolo un abbondante raccolto e, per aver esaudito questa richiesta fatta durante i giorni di Rosh ha shanà e Kippur, lo si supplica di far cessare per sempre le nostre sofferenze.
Succot, è chiamata con l’appellativo di “chag – festa” ed è l’unico caso in tutta la Torà che una solennità religiosa venga chiamata soltanto in questo modo.
E’ un comandamento esplicito quello che dice “ve samachtà be chagghekha – e gioirai nella tua festa” e ancora “ve haita akh sameach – e sarai molto felice” (Devarim 16).
La festa di Succot cade alla fine di un lungo e faticoso periodo che culmina con il grande digiuno di Kippur; ed è proprio per questo motivo che il mese in cui cadono tutte le tre grandi festività, Rosh ha shanà, Kippur e Succot, è definito “jerach ha etanim – il mese dei giganti”.
Eppure, nonostante tutto, di Succot abbiamo comandata la mitzvà di gioire. La mitzvà prevalente di questa grande festività che fa parte dei shalosh regalim – i tre pellegrinaggi (con pesach e shavuot) è quella di costruire una succà e viverci dentro per sette giorni, a dispetto delle intemperie climatiche che possono alternarsi tra il caldo dell’estate, che ci sta lasciando, la pioggia, e il vento dell’autunno che inizia a farsi sentire.
Abbiamo l’ordine divino, di abbandonare le nostre abituali abitazioni, con tutti i loro comfort, per trasferirci sotto la succà; alcuni scettici potrebbero dire: “ma che gioia è quella di trascorrere giorno e notte esposti al vento o sotto la pioggia, oppure al caldo torrido?” Tanto più che la succà, secondo l’insegnamento dei nostri Maestri deve essere una cosa provvisoria e nemmeno fissata al pavimento: e allora?
Nella tradizione popolare, soprattutto presso le comunità che si occupavano di agricoltura o di pastorizia, come era quella ebraica, la capanna simboleggiava un punto di ristoro dalla fatica del lavoro; un luogo dove i contadini o i pastori trovavano un momento per riposarsi e, magari, riorganizzare il loro lavoro.
Noi ebrei stiamo iniziando un nuovo anno, ma da quando è iniziato fino ad ora non abbiamo pensato ad altro che a come riconciliarci con D-o e con il nostro prossimo: alla teshuvà; come poterci spiritualmente preparare allo Yom Kippur. Ora, passato questo periodo sentiamo la necessità di riorganizzare il nostro lavoro, soprattutto nel momento più propizio dell’anno, che è quello in cui si raccoglie il prodotto; abbiamo quindi bisogno di rilassarci per riorganizzare le idee.
Abbiamo detto che Succot è la festa del raccolto: un raccolto che secondo ciò che un uomo si prefigge già dall’inizio della semina, sia abbondante; per questo si gioisce nel vedere realizzati i nostri desideri. Questo però non deve farci montare troppo la testa; non deve farci inorgoglire verso nostro fratello, anzi abbiamo il dovere di aiutarlo e pensare e riflettere che tutto proviene dal Signore, il quale sa chi premiare con un grande raccolto e chi punire con la carestia. Tutto questo viene simboleggiato dalla precarietà della succà che, se è bel tempo si mantiene intatta, se piove o c’è vento verrà distrutta di li a poco e tutto il lavoro viene spazzato via. Ancora una incongruenza: si è detto che Succot è la festa della gioia, della felicità mentre i nostri Maestri ci indicano di leggere il libro del Qoelet; un libro di vedute apparentemente pessimistiche.
Il perché di questa scelta è data proprio dal fatto che noi dobbiamo sempre moderare le emozioni che segnano la nostra vita: una gioia sfrenata, può portare a conseguenze disastrose che a volte culminano con la morte, mentre l’insegnamento della Torà e di tutta la nostra tradizione è all’insegna della vita. La gioia deve essere sempre accompagnata dalla riflessione e, anche con un filo di amaro. A volte una cosa estremamente dolce può provocare una sensazione di disgusto, ma con un filo di amaro, può essere più gradevole.
Non c’è dubbio che nella tradizione ebraica tutto deve essere estremamente calibrato e ponderato, in modo da godere fino in fondo le cose buone che la vita ci riserva.
Rav Alberto Sermoneta è Rabbino Capo di Bologna