La coincidenza temporale quasi perfetta fra il fallimento del giro di consultazioni per formare un governo senza Netanyahu, condotto da un ex capo delle forze armate di Israele, Benny Gantz, e del rinvio a giudizio di Netanyahu deciso dal procuratore generale Mendelblit indica i termini di una grave crisi politica interna dello stato di Israele. Non è certo possibile ora giudicare delle accuse a Netanyahu, cui vengono imputati dei regali di bottiglie di vino e di sigari da parte di imprenditori vecchi amici e alcuni contatti con imprenditori dei media per cercare di convincerli, peraltro senza risultati, ad adottare una linea editoriale meno ostile. Sono fatti che in tutte le democrazie occidentali non avrebbero rilevanza penale, come ha rilevato un grande giurista americano come Alan Derschowitz, che ha invitato pubblicamente Mendelbit a lasciar cadere l’accusa. Quel che bisogna notare è che l’eliminazione politica di Netanyahu è al centro di entrambe le vicende che da un anno paralizzano la vita politica israeliana, quella giudiziaria e quella governativa. Non si tratta però solo della sorte di una persona, ma di una linea politica. La richiesta preliminare di Gantz a Netanyahu per formare un governo era l’abbandono degli alleati religiosi e nazional-religiosi, mentre Gantz stesso ha dichiarato che, se non fosse stato bloccato da alcuni deputati del suo partito, avrebbe costituito un governo con l’appoggio determinante dei partiti arabi, che sono vicini ai vari movimenti palestinisti. Bisognerà aspettare il probabile prossimo turno elettorale del 17 marzo per capire come finirà la lotta politica per il governo di Israele, salvo che alla sinistra non riesca un ribaltone nelle prossime due settimane. E un processo, più o meno nello stesso tempo, deciderà la sorte personale di Netanyahu. Certo è che in questa durissima partita la politica Israeliana rischia di perdere il senso strategico della sicurezza di Israele, che Netanyahu non aveva mai smesso di garantire finora.