Quel che accade a Gaza ha molte lezioni da dare a chi considera obiettivamente la situazione. Una è che quando un’organizzazione terrorista si impianta in un territorio urbano denso è difficilissimo estirparla, praticamente impossibile se non si usano metodi inumani come quelli usati da Assad in Siria: i gas, i bombardamenti antiuomo, la distruzione totale delle città – che Israele non vuole e non può impiegare. Ripulire un nido terrorista del genere comporta perdite inaccettabili sia per l’esercito che per le popolazioni civili. Una volta conquistato, poi, non esistendo forze non terroriste cui affidarlo, la sua gestione diretta risulterebbe certamente molto difficile e pericolosa, soggetta a attacchi terroristici quotidiani. Ne consegue che è vitale impedire questo radicamento. In Giudea e Samaria, in seguito agli accordi di Oslo, un radicamento terroristico fu tentato dai palestinisti nel 2001 con la cosiddetta “seconda Intifada” e Israele la scongiurò riconquistando le città con l’operazione “Scudo difensivo” e poi non abbandonando mai la sicurezza, anche nella zona A amministrata dall’Autorità Palestinese. Ogni volta che i terroristi tentano di riorganizzarsi, vi sono arresti e retate. Ciò non impedisce il terrorismo minuto, ma ha prevenuto i grandi attacchi e ha impedito a Hamas di prendere il potere sull’AP. A Gaza invece questa possibilità di intervento è andata perduta nel 2005, quando Sharon decise di attuare un disimpegno completo. Oggi è impossibile da ricostituire. Dal punto di vista della sovranità territoriale, Gaza è molto più uno stato dei territori governati da Ramallah, proprio perché Israele non è in grado di intervenirvi senza fare guerra. Questo è un monito rispetto a chi pensa che bisognerebbe dar vita a uno stato palestinese davvero territorialmente sovrano su Giudea e Samaria o su parte di esse. A parte ogni altro problema, sarebbe la ricetta di una nuova Gaza, quindici volte più grande.