Sull’eutanasia nella riflessione ebraica si incontrano/scontrano almeno due principi diversi: il divieto di uccidere e il diritto a non soffrire.
Non esistono indicazioni chiare e specifiche su questi punti nella Bibbia, ma da questa vengono comunque tratte le basi per il ragionamento successivo della tradizione.
Il divieto di uccidere, che già in Genesi 9 deriva dall’enunciato che l’uomo è fatto a immagine divina, per cui l’offesa alla vita è offesa a Dio, viene poi sancito nei Dieci Comandamenti. Non è lecito togliere la vita a nessuno, salvo nei casi stabiliti rigorosamente dalla legge, in cui c’è un tribunale garantista che decida la condanna per determinati reati. E non solo è vietato togliere la vita agli altri ma anche la propria.
Il secondo principio, che in casi drammatici può entrare in conflitto con il precedente, è quello del diritto a non soffrire. La tradizione religiosa ebraica riconosce nella sofferenza un valore, una sollecitazione all’esame di coscienza, un modo di espiare le proprie colpe; malgrado questo non c’è alcuna sollecitazione alla sofferenza; i Maestri dicevano di non volere né le sofferenze né i meriti che ne potrebbero derivare. Non c’è obbligo di soffrire, e alleviare le pene di chi soffre è legittimo e meritorio.
Chi si trovi davanti a un malato estremamente sofferente, sia per condizione professionale che per qualsiasi altro motivo, può essere indotto a reagire all’intenso stimolo emotivo ed umanitario che riceve con risposte di tipo differente: dal rifiuto delle responsabilità ad un forte impegno personale che, a sua volta, può realizzarsi in modi opposti, dal desiderio di affrettare la morte del malato per porre fine alle sue sofferenze (eutanasia), al tentativo esasperato di curarlo ad ogni costo (accanimento terapeutico).
Non si tratta, evidentemente, di decisioni banali; non solo perché la cosa non riguarda unicamente chi agisce, come l’operatore sanitario, o l’amico o il parente, ma pure un’altra persona, quella del sofferente, che spesso non è neppure cosciente; ma anche perché i termini del problema sono strettamente correlati a quello più generale del diritto di decidere e intervenire sulla vita di altri.
In una società civile questo diritto non può restare indeterminato, lasciando le decisioni ai singoli, ma va garantito e regolato con precisione, essendo una delle basi essenziali della convivenza.
In una cultura che ha radici religiose, all’esigenza della stabilità sociale si unisce il peso di una tradizione di fede e di etica che sostiene dei principi generali sul valore della vita umana.
Nella tradizione ebraica, come è noto, le scelte della halakhà non sono pure astrazioni religiose, ma corrispondono anche alle esigenze della stabilità sociale. In merito al problema che stiamo affrontando esistono degli orientamenti generali definiti da molti secoli; va tuttavia aggiunto che i progressi recenti della medicina hanno posto una serie molto complicata di problemi particolari, sui quali la discussione è viva e le risposte spesso discordanti.
I concetti essenziali che regolano la materia sono essenzialmente due.
In primo luogo è proibito ogni atto che possa accelerare la morte di un agonizzante: gli esempi citati nei testi tradizionali si riferiscono anche a mezzi indiretti di tipo magico, o a semplici azioni come movimenti del corpo, che in qualche modo turbano un equilibrio precario. Il concetto che ispira queste regole è che a nessuno è concesso il diritto di procurare la morte anche se si tratta di un processo irreversibile e imminente, anche se per i medici non c’è più alcuna speranza e anche se è il malato stesso a richiederlo.
Chi procura direttamente la morte ad un agonizzante è in pratica come se avesse compiuto un omicidio.
Ovviamente la regola riguarda in primo luogo il medico, al quale è anche proibito suggerire al malato i modi per risolvere da solo il problema. Per dirla con le parole del Rav Jakobovits, nel conflitto di interessi tra la tutela della santità della vita e l’esigenza legittima di liberare dal dolore, quest’ultima non può avere la prevalenza sulla prima. “Se si diminuisce il valore della vita di un uomo perché questi sta per morire, la vita dell’uomo in generale perde il suo valore assoluto e diventa relativa” (Ha-Refuà weha-Jahadùt).
In questo ambito rientra anche la propria morte, cioè il suicidio, anche se sono in molti a considerare con molta minore severità il suicidio messo in atto per risparmiarsi delle sofferenze (anche perché un uomo che soffre è sempre meno responsabile delle sue azioni: en adàm nitpàs ‘al tza’arò).
Un secondo concetto, che limita l’ambito del primo, stabilendo una sottile, ma importante differenza, è che è permesso rimuovere le cause che indirettamente impediscono la morte di un agonizzante; l’esempio classico è quello di un suono esterno ripetuto, come i colpi di qualcuno che spacca la legna, che, se impediscono il trapasso, possono essere fermati. Parallelamente non vanno messe in atto le misure che servono solo a prolungare le sofferenze del malato (anche perché nell’ebraismo la medicina è permessa nella misura in cui cura e guarisce): gli esempi classici sono il far rumore o piangere in presenza del malato o mettergli del sale sulla lingua.
Da questi esempi, che compaiono nel testo classico medioevale del Sefer Chasidim, alle sofisticate attrezzature della medicina moderna è passato molto tempo, e così la casistica si è notevolmente articolata recentemente, cercando di verificare ogni volta la complicata differenza che può esistere tra la rimozione di ciò che impedisce e l’applicazione di ciò che affretta.
Un esempio è nel caso di un respiratore automatico applicato a un moribondo: l’orientamento prevalente è che “se è chiaro che il respiro e il battito cardiaco sono fermi è permesso staccare l’apparecchio ed è proibito riapplicarlo”; un suggerimento pratico è quello di regolare l’apparecchio con un interruttore che lo ferma periodicamente, e di verificare la situazione durante le fermate: se il malato è vivo, si riavvia l’apparecchio, altrimenti lo si stacca definitivamente (Hilkhòt Rofeìm Rufuà).
Analogamente un paziente con attività cerebrale irreversibilmente danneggiata, non deve essere sottoposto a cure che hanno solo il fine di creare una situazione artificiosa di rinvio del decesso; se le cure sono in corso, non vanno però interrotte; e infine se la bombola di ossigeno si vuota o l’infusione di liquidi con farmaci essenziali per mantenere un minimo di pressione finisce, non si è tenuti a metterne di nuove.
Un altro problema è quello dell’impiego di farmaci antidolorifici e di sedazione, che sono permessi anche se possono indirettamente affrettare la morte, purché non siano dati proprio per questo scopo.
Un ultimo esempio, proprio di un mondo religioso che crede alla forza della preghiera, è il problema se sia permesso pregare per la morte di un paziente, affinché questi possa finire di soffrire; la questione è controversa, e in recenti orientamenti si proibisce comunque ai parenti questo tipo di preghiera, che invece è consentita al malato stesso, mentre a terzi può essere consentita solo a particolari condizioni, come la genericità dell’invocazione e la verificata inutilità dei mezzi messi a disposizione dalla medicina.
Concludendo l’atteggiamento che le autorità rabbiniche, e più in generale il pensiero ebraico, hanno su queste problematiche di bioetica può così riassumersi: una grande attenzione agli sviluppi tecnici e ai loro potenziali benefici per l’uomo, insieme a una prudente vigilanza e a una incessante e talora lacerante riflessione, per la tutela dei principi etici su cui si fonda la tradizione dell’ebraismo e la convivenza civile dell’ umanità.
(Estratti da “Origami” e “Fine vita e pensiero ebraico – Numero Speciale Uno sguardo giuridico e bioetico sul fine vita”)