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    Storia di un’amicizia (forse): Dante e Manoello Romano

    Scrivere di Dante e degli ebrei del suo tempo significa ricordare Immanuel da Roma, alias Manoello Giudeo. Tuttavia, in via preliminare, occorre accennare a tre letterati ebrei che precedettero l’Alighieri. Il primo è Biniamìn ben Avraham ‘Anàv (sec. XIII), fratello maggiore del più celebre Tzidqiah -l’autore dello Shibbolé haLéqet, fondamentale opera di halakhah italiana-. Biniamìn, importante poeta liturgico (autore di selichòth, tra cui quella acrostica Barùkh Eloqé ‘Eliòn), compose un’operetta satirica che godette di una certa celebrità, ove poesia e prosa si alternano e in cui viene allestito una sorta di “inferno” per ricchi dissoluti, con vizi, peccatori e punizioni. In Sicilia, a distanza di qualche anno, operò il traduttore Aḥitùv da Palermo, impegnato sugli originali arabi di Maimonide, in un contesto ebraico fortemente influenzato dal pensiero maimonideo-aristotelico, sin da quando nei circoli rabbinici divampò l’aspra controversia attorno agli scritti di Rabbenu Mosheh ben Maimòn. In una sua opera allegorica, Aḥituv (XIII-XIV sec.) descrisse la propria ascesa nell’empireo, ove poté saziarsi del pane dei giusti e bere l’acqua scaturente dalle sorgenti celesti, con cui peraltro si peritò di annaffiare il suo bell’orto siciliano, che gli elargì tredici squisiti e succulenti frutti -ossia i tredici articoli di fede definiti da Maimonide-, da condividere riservatamente con chi sappia gustarli. Infine, nella Spagna degli anni ’60 del XIII secolo, Avraham da Toledo (Ibn Waqar) per conto di re Alfonso X di Castiglia tradusse in castigliano dall’originale arabo un testo particolare, noto nel mondo latino come Liber de Scala, che, a detta di certa critica contemporanea, costituirebbe il presunto anello di congiunzione tra Dante e la cultura arabo-islamica (giuntagli comunque indirettamente, mediata, come in questo caso, da ebrei), specie per quanto riguarda la Comedia.

    Non è importante che Dante abbia avuto o meno accesso alle fonti appena ricordate (tenendo sempre presente che i suoi principali modelli e riferimenti poetici furono Virgilio, Omero e Ovidio); è invece significativo -e persino avvincente- che nell’Italia centro-meridionale, alcuni decenni prima del supremo capolavoro dantesco, due autori ebrei avessero vagheggiato in versi di ascese o discese nei regni eterni dei dannati e dei beati. Tutt’altra questione, invece, riguarda il lungo discorso sul linguaggio -razionale o arbitrario, essenziale o convenzionale?-, sulle sue capacità espressive e sulla sua esattezza che Dante affronta nel De Vulgari Eloquentia. Da buon medievale, si diffonde sulla lingua della Creazione; sulla lingua parlata da Dio e da Adamo, e poi da quest’ultimo con Eva e i suoi figli; sulla confusio linguarum successiva a Babele e sull’ebraico, la lingua della Rivelazione. Come ha osservato anche Umberto Eco ne La ricerca della lingua perfetta, nella riflessione dantesca ricorrono questioni e temi sviluppati da mistici e pensatori ebrei quali Avraham Abulafia (che soggiornò a Roma), Yehudah Romano, Hillél da Verona e Menaḥém Biniamìn Recanati. Ma, nel caso, chi fu il trait d’union tra questi Maestri e il Poeta divino?

    Giungiamo così al nostro Manoello: romano per nascita e formazione, cugino -guarda caso- dell’appena citato Yehudah, e poi fuggitivo dall’Urbe per motivi ignoti. Nelle sue peregrinazioni, che in qualche modo ne avvicinano l’esistenza a quella esilica di Dante, Manoello venne accolto alla dinamica corte veronese di Cangrande della Scala (la più filoimperiale d’Europa, per splendore e vivacità seconda soltanto a quella siciliana all’epoca di Ruggero d’Altavilla e Federico II di Svevia), proprio negli stessi anni del soggiorno del fiorentino nella città scaligera. I due si conobbero e frequentarono? Furono amici? Queste domande restano prive di una risposta diretta. Tuttavia, Manoello fu legato da vincoli amicali al letterato e giurista Cino da Pistoia (1270-1336) e a Bosone da Gubbio (XIV sec.), politico e uomo di lettere, entrambi poeti e buoni amici di Dante. In particolare, si è conservato un fondamentale scambio di sonetti, successivi al 1321, tra Bosone (Due lumi sono di nuovo spenti al mondo) e Manoello (Io che trassi le lacrime dal fondo) per piangere la morte del Poeta, ritenuta dall’ebreo romano un lutto universale. Questo specialissimo sonetto, assieme ad altri tre e a una “frottola” detta Bisbidis, costituiscono quanto è sopravvissuto della produzione in volgare di Manoello, che si affiancava ai commenti biblici e ai suoi scritti in ebraico.

    Ma c’è molto altro. L’opera principale di Manoello (tra i primi libri ebraici messi a stampa dai Soncino, ancora oggi malvista in certuni ambienti rabbinici) è un prosimetro in ventotto sezioni, le Mahbaròt Immanuel (quaderni/conversazioni), ove il nostro autore introduce per la prima volta nella lingua ebraica il genere letterario, tipicamente italiano, del sonetto. Ancor più, l’ultimo capitolo delle Mahbaròt è intitolato non a caso “Inferno e Paradiso”, raccontando di un immaginario viaggio, sulla scorta della Divina Commedia, nei regni oltremondani dei dannati e dei beati, puniti o premiati per il comportamento tenuto in vita, retto o empio, indipendentemente dalla fede di appartenenza. Non dissimilmente da Dante pellegrino, anche Manoello s’intrattiene, nelle viscere della terra, a conversare con i dannati, puniti secondo il modello del contrappasso; ma anche con i beati, in un Paradiso articolato in vari gradi, per essere infine accolto dai Profeti che gli confermano la felicità ultraterrena in virtù della sua opera intellettuale e, specialmente, dei suoi commenti biblici. E anche Manoello, nei regni dei morti, come Dante, ha il suo lampadoforo -il suo Virgilio-, che nelle Mahbaròt si chiama Daniele, ma che sembrerebbe essere proprio Dante Alighieri.

    In conclusione, come scrive Umberto Fortis (Manoello Volgare, Salomone Belforte & C.), Immanuel ben Shelomoh ha-Romì fu il maggiore poeta ebreo dell’età medievale, capace di fondere armonicamente, in un tessuto nuovo e originale, la grande tradizione poetica della scuola giudeo-spagnola (con i suoi eccezionali debiti verso la lingua e la metrica arabe, sia per la poesia liturgica sia per la poesia erotica prodotte dai rabbini) e le esperienze liriche italiane, stilnovistiche e giocose (c’è, infatti, in Manoello un gustoso “ammiccare” che parrebbe talora avvicinarlo a Cecco Angiolieri, la cui riscoperta si deve ampiamente, peraltro, al letterato ebreo pisano Alessandro D’Ancona… ma questa è un’altra storia).

    Vittorio Robiati Bendaud (1983), già principale collaboratore di Rav G. Laras zl, coordina il tribunale rabbinico del centro nord Italia. È autore del saggio La stella e la mezzaluna. Breve storia degli ebrei nei domini dell’Islam (Guerini, 2018) e de Il viaggio e l’ardimento (Liberilibri, 2020), il cui primo racconto ha per protagonista Manoello Romano


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    “Il viaggio e l’ardimento” è il nuovo libro scritto da Vittorio Robiati Bendaud per la casa editrice Liberilibri.

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