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    Parashà di Bò: Il popolo è il libro!

    La parashà inizia con queste
    parole: “L’Eterno disse a Moshè: Va dal Faraone. Ho reso ostinati lui e i suoi
    ministri, al fine di effettuare in mezzo ad essi questi miei prodigi.  E al fine che raccontiate ai vostri figli e
    nipoti come ho operato con gli egiziani e i prodigi che ho eseguiti tra di
    loro. Così voi riconoscerete che Io sono l’Eterno” (Shemòt, 10: 1-2).

    R. Joseph Pacifici (Firenze,
    1928-2021, Kiriat Sefer) in Hearòt ve-He’aròt (p. 71) spiega che il Signore
    dice a Moshè “Così voi riconoscerete che Io sono l’Eterno”, per rafforzare la
    fede degli israeliti nell’Eterno. E questo non solo in quell’occasione; anche
    in tutte le generazioni future la nostra fede si rafforza grazie al racconto
    delle piaghe e dell’uscita dall’Egitto (che facciamo durante il sèder di
    Pèsach).

    Da notare che gli israeliti anche
    nel mezzo delle piaghe d’Egitto non erano veramente sicuri che l’intervento
    divino li avrebbe resi liberi. Infatti fu solo dopo il passaggio del mare
    quando l’esercito egiziano venne inghiottito dalle acque che è scritto: “Ed
    ebbero fede nell’Eterno e nel suo servitore Moshè” (Shemòt, 15:31).

    R. Joseph Beer Soloveitchik
    (Belarus, 1903-1993, Boston) in Mesoras Harav (p. 75) commenta che la parola
    “sippùr” (racconto) è correlata alla parola “sofèr” (scrittore). La comune
    radice etimologica di queste due parole suggerisce che una storia può essere
    trasmessa sia oralmente sia per iscritto.

    La Meghillà di Ester è descritta
    sia come una “ighèret” (lettera) sia come un “sèfer” (libro). La differenza tra
    una ighèret e un sèfer è che una lettera non viene scritta con la stessa cura
    di un libro perché normalmente viene cestinata dopo che è stata letta. Un
    “sèfer” invece deve essere scritto su pergamena e deve essere duraturo. Non
    deve contenere parole o lettere superflue. Chi scrive un sèfer lo fa per la sua
    e per le generazioni future. I nostri maestri ci insegnano che al crepuscolo
    del sesto giorno della creazione era stata stabilita la base per alcuni dei
    grandi miracoli della Torà (Pirkè Avòt, 5:8). In questo gruppo di miracoli vi
    fu anche “ketàv veha-mikhtàv”, l’abilità di scrivere. Il fatto che una cosa
    prosaica come l’abilità di scrivere appaia in questa lista suggerisce che vi è
    qualcosa al di fuori dell’ordinario nell’abilità di registrare un’idea o un
    evento e far sì che si conservi per migliaia di anni.

    La parola scritta ci permette di
    penetrare nei pensieri dell’uomo e di identificarsi con esso. Quando studiamo
    la Torà non impariamo solo di eventi che ebbero luogo migliaia di anni fa.
    Quando leggiamo i racconti dei patriarchi, ci immedesimiamo nelle loro vicende:
    riviviamo il dramma del sacrificio di Yitzchàk e tremiamo al pensiero che Esau
    torni prima che Yitzchàk abbia finito di dare la benedizione  a Ya’akòv! La parola scritta ci trasporta nel
    passato e possiamo rivivere eventi che avvennero migliaia di anni fa.

    Il miracolo del “ketàv
    veha-mikhtàv” viene messo in evidenza nella notte del seder di Pèsach. Una  direttiva della Haggadà e che “In ogni
    generazione siamo obbligati a vedere noi stessi come se fossimo usciti
    dall’Egitto”. Come possiamo rivivere un evento che ebbe luogo 3.500 anni fa?
    Con la nostra tradizione orale. Il racconto dell’uscita dall’Egitto non è una
    semplice storiella. L’imperativo di “Lo racconterai a tuo figlio” (Shemòt,
    13:8) ha un significato più profondo. Significa che il figlio deve essere il
    “sèfer” nel quale il padre scrive. Il compito principale del padre è di fare il
    sofèr, lo scrittore, e di trasformare il figlio in un libro nel quale scrivere
    in modo indelebile un testo che vivrà dopo di lui e che verrà trasmesso alle
    prossime generazioni. La descrizione d’Israele come “Il popolo del libro” non
    significa che si tratta di un popolo che legge libri; è un popolo la cui vera
    essenza è di essere un libro!

    Il significato della mitzvà di
    raccontare l’uscita dall’Egitto è di 
    infondere lo spirito della Torà nella prossima generazione fino a quando
    quella generazione sarà in grado di fare lo stesso alla tavola del sèder di
    Pèsach con i loro figli.  

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