Elisabetta Furcht, milanese, docente allo IED, Istituto Europeo di Design, pittrice ad acquarello per passione, all’indomani dei vili rapimenti perpetrati dai terroristi di Hamas, ha deciso portare il suo personale contributo per la liberazione degli ostaggi disegnando ogni giorno il ritratto di uno di loro e diffondendolo con tutti i mezzi possibili per tener alta l’attenzione sulla loro inumana condizione.
Da dove parte il suo coinvolgimento? Che ruolo ha avuto suo padre?
Durante le persecuzioni razziali, Roberto Furcht, mio padre, ancora bambino, ha vissuto due anni in clandestinità al collegio Gallio di Como sotto falso nome. È stato salvato da monsignor Giovanni Ferro, per lui la Shoah è rimasta una ferita mai guarita: mi ha trasmesso una ipersensibilità all’antisemitismo e all’antiisraelianismo. Oggi avverto questo sentimento ancora più forte e voglio far sentire la mia voce per Israele.
Come ha deciso di impegnarsi per la liberazione degli ostaggi?
Quanto accaduto il 7 ottobre è disumano. Non riuscivo più a dipingere i miei temi ricorrenti: la natura, gli animali, i paesaggi, volevo onorare la memoria degli innocenti civili israeliani uccisi da Hamas, delle ragazze e delle donne massacrate e violentate, dei bambini decapiti e bruciati vivi, dei bambini uccisi di fronte ai propri genitori e dei genitori uccisi difronte ai propri bambini. Volevo sentire vicino al cuore i volti degli oltre 240 innocenti civili israeliani tenuti in ostaggio da Hamas nella Striscia di Gaza che da più di 35 giorni non vedono i propri famigliari. Il 7 ottobre il peggior incubo di centinaia di famiglie è diventato realtà, niente sarà per loro più come prima. Mi angoscia pensare che gli ostaggi e le vittime israeliane siano state disumanizzate dai media e dalla gente; con i ritratti cerco di portare all’attenzione la natura umana di queste persone.
Maya è stato il primo ostaggio che ha ritratto: perché?
Avevo visto il video della ragazza che era stato diffuso da Hamas a 10 giorni dal rapimento. Quando non era stato ancora creato il sito con le storie degli ostaggi, mi avevano colpito i suoi occhi così belli e tristi. Ha l’età di mio figlio, potrebbe essere mia figlia.
Erez e Naama cosa hanno in comune?
La gioia di vivere. L’augurio più bello che posso immaginare è che tornino presto ad essere felici. Consultando il sito bringthemhomenow.net – il forum dei famigliari degli ostaggi – leggo le biografie dei rapiti: di Erez mi ha subito impressionato la sguardo vispo, intelligente, di un adolescente di 12 anni, che suona la tromba, ama gli animali e possiede un cavallo che si chiama Trinkerbell.
E i genitori di Omer?
Stanno impegnandosi allo stremo per riportare a casa il figlio. La scorsa settimana con i famigliari che vivono negli Stati Uniti hanno deciso di festeggiare il 22° compleanno di Omer senza di lui; hanno acceso 23 candele, 22 + 1 per la vita, naturalmente non le hanno spente, hanno pregato e parlato della scelta di Omer di andare a vivere in Israele alla fine del liceo. Hanno rilanciato il ritratto che ho dipinto nelle loro storie e mi hanno ringraziata.
Kfir ha 9 mesi, Emma e Yuli 3 anni. Con loro altri 26 bambini sono in ostaggio…
Kfir, il più giovane di tutti gli ostaggi, è stato rapito al Kibbitz di Nir Oz con Ariel, il fratello di 4 anni e con i genitori: ha un viso tenerissimo, spero con tutto il cuore che sia in cattività con il papà e la mamma. Tenere in ostaggio bambini è un crimine contro l’umanità, chi lo commette si qualifica da sé come essere disumano, chi non lo condanna, senza se e senza ma, è complice.